RICORSO PER CASSAZIONE: l'avviso di ricevimento del ricorso può essere prodotto fino all'udienza di discussione
Lavviso di ricevimento del piego raccomandato contenente la copia del ricorso per cassazione spedita per la notificazione a mezzo del servizio postale ex art.149 cpc può essere prodotto fino alludienza di discussione, ma prima che abbia inizio la relazione ex art.379 cpc. Così si è pronunciata la Corte di Cassazione con sentenza, n. 1237 del 22-01-2014 accogliendo il ricorso dellAgenzia delle Entrate avverso la sentenza della Commissione Tributaria della Lombardia che aveva dichiarato inammissibile lappello per mancata allegazione della notifica in sede di costituzione. Il Supremo Collegio ha così ribadito il principio di diritto già espresso dalla Sezioni Unite nel 2008 con sentenza n. 267, precisando che l'avviso di ricevimento del piego raccomandato contenente la copia del ricorso per cassazione spedita per la notificazione a mezzo del servizio postale ex art. 149 cpc ovvero la raccomandata richiesta nel caso di notifica ex art.140 cpc - deve essere prodotta a pena di inammissibilità entro l'udienza di discussione ma prima che abbia inizio la relazione di cui allart.380 bis cpc. La produzione di tale avviso svolge, infatti, la funzione di provare l'avvenuto perfezionamento del procedimento notificatorio e, dunque, dell'avvenuta instaurazione del contraddittorio. In caso di mancata produzione del detto avviso, e in assenza di attività difensiva del ricorrente, il ricorso è dichiarato inammissibile. Resta salva la possibilità per il ricorrente di demandare la rimessione in termini ove dimostri di non aver ricevuto il detto piego, offrendo, al tempo stesso, la prova di essersi attivato tempestivamente chiedendo allufficio postale un duplicato dellavviso....
AVVOCATI: il presidente del CDA può svolgere la pratica forense
Il presidente del consiglio di amministrazione di una società può svolgere la pratica forense se non ha effettivi poteri di gestione. È questo il principio di diritto statuito dalla Cassazione civile, a sezioni unite, con sentenza n. 25797 pronunziata in data 18/11/2013 in materia di tirocinio forense. Nel caso di specie, la sentenza trae origine dal ricorso presentato da un praticante procuratore avverso la decisione del Consiglio Nazionale Forense che, in conformità con la delibera del Consiglio dellOrdine degli Avvocati di (Omissis), aveva revocato la sua autorizzazione allesercizio della pratica forense sul presupposto che, essendo il ricorrente presidente del consiglio di amministrazione di una società di capitali, tale carica fosse di per se incompatibile con lesercizio della professione di avvocato. Ebbene, la Suprema Corte, chiamata a pronunziarsi sul caso de quo, ha accolto il ricorso atteso che il Consiglio Nazionale Forense aveva erroneamente omesso di accertare se lincolpato, nella sua qualità di presidente dellorgano amministrativo, fosse titolare di effettivi poteri di gestione, a prescindere da ogni indagine sulla consistenza patrimoniale della società medesima e sulla sua conseguente esposizione a procedure concorsuali. In conclusione, dunque, i giudici di legittimità, tenuto conto della nuova disciplina dellincompatibilità della professione di avvocato con lattività dimpresa, hanno cassato la sentenza impugnata rimettendo la causa al Consiglio Nazionale Forense. ...
RITENUTE DIMPOSTA: lintervenuto fallimento non integra la causa di forza maggiore
Nel caso di omesso versamento delle ritenute fiscali da parte del sostituto d'imposta, il fallimento della società, sebbene intervenuto pochi giorni dopo la scadenza del termine per il versamento delle ritenute non integra la causa di non punibilità per forza maggiore. Il sostituto d'imposta, deve sempre ripartire le proprie risorse in modo da poter adempiere l'obbligo tributario. Così si è espressa la Suprema Corte di Cassazione, terza sezione penale, con sentenza n. 3124 del 23/01/2014. Il caso trae origine dalla condanna inflitta all'amministratore di una società, per aver omesso il versamento delle ritenute dimposta ex art. 10 bis del Dlgs 74/2000. Proposto ricorso per Cassazione lamministratore condannato lamentava, tra laltro, limpossibilità di versare le somme dovute in quanto il fallimento della società stessa era intervenuto pochi giorni dopo la scadenza del pagamento e chiedeva, dunque, applicarsi la causa di non punibilità per forza maggiore. Ebbene il Supremo Collegio ha ben precisato che il fallimento della società, sebbene intervenuto pochi giorni dopo la scadenza del termine per il versamento delle ritenute, non integra la causa di non punibilità per forza maggiore il quale postula lesistenza di un fatto imponderabile, imprevisto ed imprevedibile. Nel caso di specie invero, osserva la Corte, lamministratore aveva ricoperto la detta funzione già quando la società versava in stato di crisi economica e di liquidità ragion per cui il mancato pagamento era circostanza allo stesso ben nota. Da cui ne consegue che la relativa omissione è il risultato di una consapevole decisione. In merito poi allulteriore doglianza sollevata dal ricorrente relativa allassenza delle certificazioni attestanti le somme trattenute ai sostituti, la Corte ha viepiù precisato che, per provare la violazione, è sufficiente lallegazione dei modelli 770 provenienti dallo stesso datore di lavoro atteso che la violazione era emersa sulla base degli accertamenti automatici svolti dallAgenzia delle Entrate. I Giudici di legittimità, hanno sulla basi di tali circostanza ritenute infondate tali eccezioni, pur accogliendo il ricorso seppur limitatamente alla conversione della pena detentiva....
Variazione domicilio fiscale: conseguenze
In caso di variazione del domicilio fiscale del contribuente, lufficio territorialmente competente ad emettere gli accertamenti e ricevere le eventuali istanze di rimborso è quello del nuovo domicilio. E questo il principio di diritto statuito dalla Cassazione civile, sezione tributaria, con sentenza n. 28398 depositata in data 19/12/2013. Nel caso di specie, la sentenza trae origine dal ricorso presentato dallAgenzia delle Entrate avverso la decisione della Commissione Tributaria Regionale che aveva accolto la richiesta di rimborso del credito IVA avanzata dal Fallimento di una società di costruzioni presso l'Ufficio di Milano, ove aveva la sede, ma relativo ad anno in cui la dichiarazione era stata presentata a Messina. In particolare, lente di riscossione lamentava l'omessa pronuncia sull'eccezione di incompetenza territoriale dell'Ufficio di Milano chiedendo pertanto alla Corte se territorialmente competente a ricevere l'istanza di rimborso del credito IVA fosse l'Ufficio che aveva ricevuto la dichiarazione dei redditi nella quale detto credito era stato esposto (interpretazione favorevole allAgenzia), ovvero l'Ufficio nel cui ambito territoriale il contribuente aveva il domicilio fiscale al momento della presentazione dell'istanza (interpretazione favorevole al contribuente). Ebbene, la Suprema Corte, adita sul caso de quo, si pronunziava in favore della società, sullassunto che il credito in relazione al quale la curatela controricorrente (con sede nel capoluogo lombardo) aveva avanzato nell'ottobre del 2002 l'istanza di rimborso, era stato esposto nella dichiarazione IVA relativa all'anno d'imposta 1992 presentata dalla società in bonis (poi dichiarata fallita), avente originariamente sede nella provincia di Messina. Secondo i giudici di legittimità, a norma dell'art. 40, 1° co, DPR n. 633 del 1972, l'ufficio competente a ricevere l'istanza di rimborso va dunque individuato in quello di Milano nella cui circoscrizione la contribuente prima, e la curatela poi, avevano il domicilio fiscale al tempo della relativa presentazione. In motivazione, gli ermellini hanno statuito il principio di diritto secondo cui una volta intervenuta la modifica del domicilio fiscale, il contribuente, così come è esposto all'azione accertatrice dell'ufficio finanziario, nella cui circoscrizione ricade il domicilio modificato, può legittimamente avanzare le istanze restitutorie a detto nuovo ufficio, il quale in ossequio al menzionato criterio di buona fede col contribuente, non può invocare l'incompetenza per territorio per sottrarsi all'esame della domanda di rimborso, pur se riferita ad annualità antecedente quella del trasferimento del domicilio fiscale....
SPESE PROCESSUALI: la soccombenza è rimessa al potere decisionale del giudice di merito
In materia di spese processuali, l'identificazione della parte soccombente è rimessa all insindacabile potere decisionale del Giudice di merito, con l'unico limite di violazione del principio per cui le spese non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa. È questo il principio di diritto ribadito dalla Corte di Cassazione civile, sezione terza, con la sentenza n.892 del 17/01/2014. Nel caso di specie, la Corte di appello aveva condannato la parte parzialmente vittoriosa al pagamento dei due terzi delle spese processuali del grado, compensandone la restante parte. Per la cassazione di tale pronuncia la parte appellante adiva la Suprema Corte, deducendo, tra laltro, la violazione di legge in riferimento agli artt. 91 e 92 del cpc. In particolare la parte lamentava che, essendo essa risultata vittoriosa (anche solo parzialmente) in sede di gravame, non poteva essere condannata al pagamento di parte delle spese e che le stesse dovevano essere poste a suo vantaggio. Ebbene la Corte di Cassazione, premesso il divieto di condanna alle spese della parte totalmente vittoriosa, ha ribadito che l'identificazione della parte soccombente è rimessa al potere decisionale dei giudici precisando poi che il sindacato di legittimità sulle pronunce adottate dai giudici che abbiano disposto la compensazione parziale o integrale delle spese, deve avere ad oggetto una verifica in astratto dei motivi che abbiano giustificato la pronuncia e ladeguatezza delle argomentazioni. Tali decisioni saranno censurabili solo se fondate su ragioni palesemente illogiche o inconsistenti e cioè tali da non rendere intellegibile la ragione sottesa alla decisione adottata. Sulla base di tali presupposti, considerato che i Giudici di merito avevano posto a carico di parte appellante i due terzi delle spese processuali del grado: in ragione dellesito della lite in cui gran parte dei motivi di gravame sono stati respinti il Supremo Collegio ha rigettato il ricorso precisando che le ragioni poste a fondamento della compensazione erano ben lungi dallintegrare il vizio della motivazione. ...
RIPETIZIONE INDEBITO: non si applica il saldo zero in caso di omessa produzione degli estratti dallinizio del rapporto
Si ringrazia lAvv. Giorgio A. Marsano del Foro di Lecce per la segnalazione della sentenza e per la redazione della massima Nel caso in cui il correntista agisca in ripetizione, previo accertamento positivo del presunto credito da esso vantato nei confronti della Banca, è sull'attore che grava l'onere di dimostrare, ai sensi dell'art.2697 0.1 c.c., il fondamento della sua pretesa. Nell'azione di ripetizione di indebito, l'inesistenza del credito della Banca deve qualificarsi non come fatto impeditivo della pretesa azionata dal correntista il cui onere probatorio incomberebbe, allora sì, sul convenuto, ai sensi dell'art.2697, co. 2 c.c.-, ma piuttosto come fatto costitutivo della pretesa attorea- il cui onere grava, secondo la regola generale di cui all'art.2697, co.1 c.c., su chi fa valere in giudizio il diritto. A fronte di una azione di ripetizione di indebito, in difetto di prova circa la provenienza del primo saldo debitore da clausole ed addebiti rispettivamente invalide ed illegittimi, il saldo iniziale da cui effettuare il ricalcalo dei rapporti dare avere tra le parti deve coincidere con quello effettivamente risultante dal primo estratto conto prodotto in atti. (Avv. Giorgio A. Marsano - © Riproduzione riservata) Cosi si è espresso il Tribunale di Brindisi, dott.ssa Sara Foderaro, con sentenza del 13.01.2014, chiarendo i rapporti processuali tra correntista ed istituto di credito, in materia di ripartizione dellonere probatorio. La decisione è stata assunta a definizione di unazione di ripetizione di indebito di somme illegittimamente corrisposte, per interessi praticati a tassi determinati con rinvio agli usi su piazza e capitalizzazione trimestrale degli stessi, proposta da una società correntista nei confronti dellIstituto di credito. Il Tribunale ha avuto, anche in questo caso, la possibilità di precisare ulteriormente i termini dellonere probatorio incombente sulle parti in questo tipo di azione, ribadendo che, laddove il correntista agisca in ripetizione, previo accertamento positivo del presunto credito da esso vantato nei confronti della banca, è sull'attore che grava l'onere di dimostrare, ai sensi dell'art. 2697, co. 1 cc, il fondamento della sua pretesa e, dunque, tra l'altro, che il saldo negativo eventualmente risultante dal primo estratto conto disponibile derivi da condizioni contrattuali e addebiti, rispettivamente, invalide ed illegittimamente applicati dalla banca. Nel caso in esame la parte attrice aveva prodotto gli estratti conto per un periodo limitato e, comunque, non dalla data dellimpianto del rapporto. Va evidenziato che la questione in ordine alla produzione degli estratti conto ha assunto ancor più rilievo nel giudizio de quo, poiché il primo estratto conto disponibile agli atti riportava un saldo iniziale negativo e, cioè, a debito del correntista, di cui questultimo, in mancanza di produzione degli estratti conto per il periodo precedente da parte della Banca, pretendeva fosse portato a zero nel ricalcolo affidato al CTU nominato. Il Giudicante non ha ritenuto decisiva la argomentazione fondata sulla implicita continenza di una domanda di accertamento negativo del credito della banca in ogni domanda di ripetizione di indebito e tanto rilevando che nell'azione di ripetizione di indebito, l'inesistenza del credito della banca debba qualificarsi non come fatto impeditivo della pretesa azionata dal correntista il cui onere probatorio incomberebbe, allora sì, sul convenuto, ai sensi dell'art. 2697, co. 2 cc, ma piuttosto quale fatto costitutivo della pretesa attorea il cui onere grava, secondo la regola generale di cui all'art. 2697, co. 1 c.c., su chi fa valere in giudizio il diritto. In virtù di tale principio che il Tribunale di Brindisi ha espressamente affermato che, in caso di ripetizione di indebito in materia bancaria, sul correntista grava in realtà l'onere non di provare fatti inesistenti, bensì di provare il fatto positivo degli addebiti illegittimamente a suo carico effettuati dalla banca, mediante la produzione di documenti - gli estratti conto - dotati di indiscutibile oggettività materiale. E da tanto che discende, quindi, che il saldo iniziale non può essere modificato se il correntista non prova che lo stesso è stato determinato per effetto di illecite pratiche contrattuali dellIstituto di credito. Medesima questione è già stata trattata dalla presente rivista nel commento alla Sentenza del Tribunale di Arezzo, sez dist. Montevarchi, dott. Carlo Breggia del 30-05-2013 n. 91 con la quale è stata risolta allo stesso modo la questione in ordine allonere probatorio incombente su ciascuna delle parti. È da rilevare che anche la decisione del Tribunale di Arezzo, con la sentenza innanzi richiamata, è stata assunta in un caso di azione di ripetizione per indebito e, anche in tale giudizio, i documenti prodotti dallattore riguardavano un periodo parziale dei rapporti in cui il primo saldo disponibile era a debito del correntista. Il Tribunale non ha condiviso, anche in questo caso, la tesi difensiva dellattore, volta ad ottenere la rideterminazione del saldo con lazzeramento del saldo iniziale passivo, secondo cui lonere probatorio debba ricadere sul creditore in senso sostanziale ossia sulla Banca e non sul creditore che agisce al solo fine di far dichiarare non dovuto quanto illegittimamente preteso dallIstituto di credito. Il Tribunale ha correttamente - e in modo specifico - motivato linfondatezza della pretesa attorea, precisando che lazione proposta non è qualificabile come accertamento negativo di una altrui pretesa coltivata anche in sede stragiudiziale, ma quale azione di restituzione di indebito oggettivo di somme che si assumerebbero pagate o trattenute illegittimamente, per cui lonere non può che ricadere sul correntista che deve ricostruire per intero landamento del conto pena lassoggettamento ai diversi dati risultanti dalle prove disponibili. In ordine alla pretesa di sanzionare con il cd saldo zero la mancata produzione da parte della Banca degli estratti conto in quanto in possesso di questultima, il Giudice, nella richiamata decisione, precisa ulteriormente che porre a saldo zero lo stato del conto corrente a una certa data successiva al suo inizio, anziché, come risulterebbe dalla documentazione di causa, un saldo negativo, costituisce una manifesta violazione del principio che regola lonere della prova, perché, appunto premia chi lonere non ha adempiuto pur avendone lobbligo e sanziona chi lonere non era tenuto a rispettare: con il cd saldo zero si abbuona al cliente, in definitiva, un saldo sicuramente negativo a una certa data, senza avere la prova che fosse negativo per colpa di illecite pratiche contrattuali dellistituto piuttosto che per colpa della condotta morosa del cliente, e senza neppure avere la possibilità di esperire accertamenti in proposito. In entrambe le decisioni in commento, poi, i Giudicanti hanno ritenuto impropriamente invocato il principio della vicinanza della prova per affermare un onere della Banca di produrre la documentazione in possesso della stessa. Anche sotto tale profilo è corretta la statuizione ampiamente motivata, osservando che, pur a voler considerare che la Banca è contraente forte rispetto al correntista, tale circostanza non ha alcuna incidenza sullaccesso alla prova della parte che ha ricevuto o poteva pretendere gli estratti del conto corrente, per cui non può ritenersi eccessivamente difficile fornire la prova, specie nel caso in cui il correntista ha disperso i documenti ricevuti o si sia disinteressato ad averli. Il principio di vicinanza della prova come affermato dai Giudice delle decisione in commento è stato elaborato in giurisprudenza per dare concreta attuazione dellart. 24 della Costituzione, e lo stesso soccorre solo nel caso di difficoltà oggettiva nel dare la prova di un fatto mentre non può trovare applicazione laddove la difficoltà dipende da una condotta negligente della parte. In conclusione, alla luce delle decisioni richiamate, la giurisprudenza è unanime e costante nel ritenere che in caso di azione di ripetizione di indebito, in difetto di prova circa la provenienza del primo saldo debitore da clausole ed addebiti rispettivamente invalide ed illegittimi, il saldo iniziale da cui effettuare il ricalcolo dei rapporti dare-avere tra le parti deve coincidere con quello effettivamente risultante dal primo estratto conto prodotto in atti....
IRRAGIONEVOLE DURATA DEL PROCESSO: la sussistenza del danno non deve essere provata
In tema di equa riparazione ai sensi dell'art. 2 della legge 24 marzo 2001, n. 89, il danno non patrimoniale, in quanto conseguenza normale (ancorché non automatica e necessaria) della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, si presume sino a prova contraria, onde nessun onere di allegazione può essere addossato al ricorrente, essendo semmai l'Amministrazione resistente a dover fornire elementi idonei a farne escludere la sussistenza in concreto. E questo il principio di diritto statuito dalla Cassazione civile, sezione seconda, con sentenza n.1070 pronunziata in data 20/01/2014 in materia di risarcimento del danno non patrimoniale. Nel caso di specie, i ricorrenti avevano impugnato per revocazione la sentenza della prima sezione civile della Corte di Cassazione che aveva dichiarato l'inammissibilità del ricorso dagli stessi proposto per l'ottenimento dell'equa riparazione in ordine alla durata irragionevole di un giudizio instaurato dinanzi al T.A.R. Lazio. In particolare, i ricorrenti avevano censurato la violazione della L. n. 89 del 2001, art. 2 nonchè dell'art. 6 p. 1 della C.E.D.U., che riconoscono la risarcibilità del danno non patrimoniale libero da qualsiasi onere probatorio. Ebbene, la Cassazione civile, chiamata a pronunziarsi sul caso de quo, ha ritenuto fondato il ricorso sul presupposto che, in tema di equa riparazione ai sensi della L.89/2001 art.2, la sofferenza morale per l'eccessivo protrarsi di un processo amministrativo o contabile, quale conseguenza normale di tale irragionevole durata, non può essere disconosciuta per la sola mancanza di istanze dirette a sollecitare la decisione, trattandosi di omissione rilevante solo ai fini dell'apprezzamento dell'entità del lamentato pregiudizio non patrimoniale, non già per escluderlo. In conclusione, dunque, i giudici di legittimità, hanno accolto il ricorso per revocazione e, per leffetto, revocato la sentenza impugnata rinviando la causa innanzi alla Corte territoriale....
ESECUZIONE FORZATA: LA MANCATA OPPOSIZIONE EX ART.512 C.P.C. ESCLUDE LAZIONE DI RIPETIZIONE DELLINDEBITO
In tema di esecuzione forzata, il provvedimento che chiude il processo esecutivo, pur non avendo, in ragione della mancanza di contenuto decisorio, efficacia di giudicato, è tuttavia caratterizzato da una definitività insita nella chiusura di un procedimento esplicato nelle forme atte a salvaguardare gli interessi delle parti, incompatibile con qualsiasi sua revocabilità, atteso che nellambito del procedimento esecutivo sussiste un sistema di garanzie di legalità per la soluzione di eventuali contrasti tra le parti. Conseguentemente, il soggetto esecutato che non si sia avvalso dei rimedi oppositivi specificatamente previsti nellambito del procedimento esecutivo (in particolare dellopposizione ex art. 512 c.p.c. avverso allordinanza di assegnazione della somma conseguente alla conversione del pignoramento), non può esperire, dopo la chiusura del procedimento di esecuzione forzata, autonoma azione di ripetizione di indebito contro il creditore procedente (o intervenuto) per ottenere la restituzione di quanto costui ha riscosso, sul presupposto dellillegittimità dellesecuzione forzata per ragioni sostanziali. È questo il principio di diritto espresso dalla Corte di Appello di Genova, III sezione civile, con la sentenza n. 40 del 15/01/2014, che ha riformato la decisione emessa in primo grado, con la quale era stato confermato il decreto ingiuntivo ottenuto dalla debitrice, a titolo di restituzione delle somme incassate in eccedenza in sede esecutiva, allesito dellapprovazione del piano di riparto. In particolare, la Corte ha correttamente ritenuto che avverso il provvedimento di assegnazione delle somme il debitore esecutato deve esperire il rimedio tipico previsto dal legislatore ossia lopposizione ex art. 512 cpc. Dalla mancata impugnazione del provvedimento, che non ha efficacia di giudicato, stante lassenza di contenuto decisorio, infatti, deriva la sua consequenziale definitività insita nella stessa chiusura del procedimento e limpossibilità di esperire autonoma azione di ripetizione di indebito contro il creditore, per ottenere la restituzione di quanto costui ha riscosso, sul presupposto dellillegittimità dellesecuzione forzata per ragioni sostanziali....
Esecuzione immobiliare: conflitto tra laggiudicatario e il coltivatore diretto
In materia di vendita coattiva nell'ambito di una procedura esecutiva immobiliare, il conflitto tra lacquirente di beni agricoli e laffittuario degli stessi si risolve sulla base dellassunto che la locazione a coltivatore diretto è opponibile al terzo aggiudicatario solo nel limite del novennio, in quanto lart.2923, II comma, c.c. ed il diritto attribuito a tale soggetto, risulta compatibile con lart. 41 della legge n. 203/1982. Questo è il principio espresso dal Tribunale di Taranto, sezione specializzata agraria, relatore dott. Claudio Casarano, con la sentenza n. 2363 del 26/11/2013, che ha deciso sulla opposizione proposta dallaggiudicatario di un terreno agricolo concesso in locazione ad un coltivatore diretto, in virtù di un contratto di durata quindicennale registrato prima del pignoramento ma non trascritto. La sentenza in esame affronta il problema della compatibilità dellart. 41 della legge 203/1982, che prevede lopponibilità dei contratti agrari ultranovennali ai terzi anche se non trascritti, con lart. 2923 comma 2 cc, propendendo per la soluzione positiva, e del conflitto tra il diritto del locatario/coltivatore diretto e laggiudicatario. Lart. 41 della citata legge infatti costituisce leccezione alle regole previste dallart. 1350 n. 8 cc, in virtù della quale soggiacciono alla forma scritta ab substantiam i contratti di locazione di beni immobili per una durata superiore a nove anni, e dallart. 2643 n. 8 cc, che richiede la trascrizione per lopponibilità ai terzi, con la conseguenza che anche se solo stipulato per iscritto e munito di data certa ex art. 2704 cc ma non curata la pubblicità, un contratto di affitto a coltivatore diretto ultranovennale può essere opponibile al terzo. Se il terzo è, però, laggiudicatario dellimmobile, allora si pone il problema del coordinamento e del conflitto tra linteresse del titolare del diritto di godimento, che gode del favor del legislatore, in quanto ritenuto parte debole, e dellaggiudicatario dellimmobile pignorato ed oggetto di locazione. Ritiene il Tribunale con la sentenza in esame che, in tal caso, prevale linteresse dellaggiudicatario con la conseguenza che le locazioni ultranovennali non trascritte sono opponibili solo nei limiti di un novennio dall'inizio della locazione, da un lato, per uninterpretazione sistematica delle norme, in quanto lart. 2923 comma 2 cc disciplina una fattispecie diversa rispetto a quanto previsto dallart. 1599 cc co. 1, che per converso - è incompatibile con lart. 41 della citata legge, dallaltro perché laggiudicatario è titolare di vero e proprio diritto, che trova la sua ratio nello scopo di favorire il realizzo dei beni pignorati e, quindi, per tutelare gli interessi dei creditori della procedura esecutiva rispetto al debitore ...
REATO DI USURA: lincertezza normativa esclude la colpa dei direttori di filiale
Si ringrazia per la segnalazione della sentenza. la Dott.ssa. Gioia Rosania Non costituisce reato ex art.644 cp la condotta dei direttori di filiale degli istituti di credito che abbiano concesso finanziamenti a tassi rivelatisi usurari, ma determinati in misura conforme alle prescrizioni periodicamente impartite dai decreti ministeriali in materia di individuazione del tasso-soglia antiusura, per mancanza dellelemento soggettivo. Se, da una parte, è condivisibile lorientamento espresso dalla Cassazione circa la possibilità, per ciascun operatore bancario di livello e in posizione verticistica, di rilevare la palese la contrarietà alla legge (per l'esattezza al disposto normativo di cui all'art.644 4 comma c.p.) della norma extrapenale (Istruzioni della banca d'Italia) che individuava, allepoca dei fatti di causa, il metodo per la determinazione del tasso soglia senza computare la CMS, daltro canto, non sarebbe neppure logicamente e concretamente esigibile affermare che, a fronte di espliciti decreti ministeriali che andavano periodicamente ad integrare il precetto della norma incriminatrice i singoli organi apicali delle Banche e ancor più i singoli direttori di filiale preposti alle sedi periferiche degli Istituti di credito, potessero mettere in discussione tali modalità di computo. Come peraltro osservato dalla Suprema Corte, potrebbe ritenersi che fosse addirittura preclusa la possibilità, per i singoli direttori di filiale, anche i più attenti alla ratio della norma incriminatrice del quinto comma dellart.644 cp, di discostarsi dai criteri predeterminati dai sistemi operativi centralizzati delle varie banche, strutturati su conteggi conformi alle direttive della Banca dItalia. Esprimendo tali principi di diritto, il Giudice per lUdienza Preliminare presso il Tribunale penale di Arezzo, con sentenza del 29 gennaio 2013, n.519, ha emesso provvedimento di proscioglimento nei confronti di alcuni dirigenti di vertice di istituti di credito, chiamati a rispondere, nella qualità di direttori di sede o di filiale, del reato di usura in riferimento ad alcune operazioni di finanziamento, per le quali sarebbero state pattuiti interessi superiori ai limiti previsti dalla legislazione antiusura. In particolare è accaduto che, relativamente ad alcuni prestiti concessi ad una società da tre istituti di credito, i dirigenti di sede o di filiale di questi ultimi sono stati indagati per il reato di cui allart.644 cp, sulla scorta di un conteggio del tasso dinteresse effettivamente praticato che contemplasse anche la clausola anatocistica e la commissione di massimo scoperto, oneri che, sebbene connessi allerogazione del credito, non erano stati inclusi nel tasso dinteresse effettivo, come pubblicizzato. Allesito delle indagini preliminari, sulla base della valutazione di una prima consulenza tecnica, il P.M. aveva richiesto larchiviazione per insussistenza dellelemento soggettivo, stante il minimo sforamento del tasso soglia antiusura. La richiesta era stata però disattesa dal GIP, che aveva disposto un supplemento di perizia, ritenendo la prima erronea nella parte in cui aveva conteggiato separatamente la CMS e la clausola anatocistica, dando istruzione al consulente di ricostruire un solo TEG, comprensivo di entrambe le voci di spesa. Svoltosi il nuovo accertamento tecnico, era emerso lo sforamento del tasso soglia per tutti e tre gli istituti di credito, onde la richiesta di rinvio a giudizio da parte del PM. Per valutare la posizione degli imputati, il GUP ha ritenuto, anzitutto, di dover ricostruire levoluzione della normativa antiusura (di cui si è ampiamente parlato su questa rivista; cfr. "USURA BANCARIA : ECCO LE REGOLE"), partendo dallassunto che lart.644 cp è, nella sua peculiare configurazione, una norma penale in bianco, il cui precetto è destinato periodicamente ad essere integrato da quanto previsto dai decreti ministeriali trimestrali di rilevazione dei tassi medi effettivi globali, sulla cui base viene ricalcolato il tasso soglia. Orbene, il Giudice aretino ha premesso che in tutti i Decreti Ministeriali emanati a partire dal 22.03.97 viene sempre specificato nelle premesse che "le banche e gli intermediari finanziari al fine di verificare il rispetto del limite di cui all'art.2 comma 4 L. 108/96si attengono ai criteri di calcolo stabiliti nelle Istruzioni per la rivelazione del TEG ai sensi della Legge antiusura emanate dalla Banca di Italia e dall'Ufficio Italiano dei Cambi. In sostanza, come ha avuto modo di osservare la stessa Corte di Cassazione, Le Istruzioni della Banca d'Italia e le relative metodologie di calcolo sono state recepite dai decreti che vanno appunto ad integrare la norma penale parzialmente in bianco dell'art.644 3 comma c.p. Sulla base di tale premessa, il GUP ha notato che, dando ormai per acquisito lorientamento della Corte di Cassazione circa linvalidità della clausola anatocistica pura e semplice (a decorrere dal 2000, infatti, le Banche hanno dovuto applicare ai conti correnti in essere la pari periodicità degli interessi a debito ed a credito, come da delibera del CICR del 02.02.2000) e circa la necessità di includere la commissione di massimo scoperto tra gli oneri rilevanti al fine del calcolo dellusura, tuttavia, allepoca dei fatti richiamati nei capi dimputazione, le Istruzioni della Banca dItalia ed i decreti ministeriali di rilevazione trimestrale espressamente escludevano la commissione di massimo scoperto dal conteggio del tasso soglia. Successivamente, la Banca dItalia ha chiarito i motivi della rilevazione separata della CMS, indicando i criteri con i quali tenere conto anche di questultima, al fine di fissare una CMS soglia (cfr. bollettino di vigilanza del 2 dicembre 2005), ma solo a decorrere dal 2009, con la legge 28.01.2009 si è sancita la necessità di computare anche tale peculiare onere tra quelli determinanti il livello del TEGM, così rideterminando il livello del tasso soglia. Tale innovazione normativa, che la Banca dItalia ha interpretato come vigente solo pro futuro, è stata poi oggetto di una successiva pronuncia della Suprema Corte, che ha chiarito la necessità di prescindere dallinterpretazione dellorgano di vigilanza, in quanto stridente con il dettato normativo di fonte primaria, con la conseguenza che, anche per condotte risalenti al periodo precedente alla vigenza della norma di cui trattasi, la commissione di massimo scoperto doveva includersi nel calcolo del TEG (cfr. sent. n.12028 del 19.03.2010). Nella pronuncia da ultimo richiamata, la Cassazione aveva finito per prosciogliere gli imputati per mancanza dellelemento soggettivo, ritenendo però comunque sussistente il reato di usura, suscitando le critiche da parte di quella dottrina che aveva sottolineato come il dictum della Suprema Corte finisse per violare il principio di legalità in materia penale, posto che il legislatore stesso aveva rimesso l'integrazione della norma penale alla individuazione trimestrale dei tassi soglia, da farsi attraverso i decreti ministeriali. In altre parole, il corpo normativo si veniva a completare con le rilevazioni trimestrali del tasso. A tali critiche si aggiungevano quelle di chi notava le possibili implicazioni retroattive di una tale interpretazione. Il GUP di Arezzo, dato atto di tali critiche, non ha, però, con riferimento al caso di specie, potuto evitare di fare applicazione di analogo principio. Infatti, pur considerando la palese contrarietà della norma extrapenale alla disposizione penale primaria (art.644, 4 comma cp), ragion per cui qualunque operatore bancario di livello ed in posizione verticistica avrebbe potuto rilevare tale discrasia, nel caso di specie poteva risultare di assoluta evidenza che nessuno dei direttori di filiale coinvolti in giudizio avesse la minima consapevolezza di violare scientemente il disposto dellart. 644 cp e, di conseguenza, in capo a nessuno di essi è stato ritenuto sussistente lelemento soggettivo del reato. In sostanza, ha precisato il Tribunale, anche a voler ricostruire la fattispecie nella maniera più penalizzante per gli imputati, la ricostruzione della normativa in materia di usura ed i problemi relativi allinterpretazione di questultima, nonché soprattutto alla luce della sostanziale vincolatività per gli operatori bancari delle indicazioni fornite dalla Banca dItalia, alla cui vigilanza essi sono sottoposti, comunque non sarebbe stato possibile configurare in alcun modo una qualche responsabilità colpevole. Per tali motivi, con una chiara, lineare ed articolata motivazione, il GUP di Arezzo ha prosciolto gli imputati, con dichiarazione di non luogo a procedere nei confronti degli stessi, perché i fatti non costituiscono reato. ...
CONCORDATO PREVENTIVO: è legittima la compensazione debiti/crediti di anticipazioni bancarie
Ove il rapporto bancario prosegua nel corso della procedura concordataria, gli importi pervenuti alla Banca successivamente alla data di deposito della domanda di concordato preventivo con riserva sono legittimamente incamerati dallIstituto, ove trattenuti per effetto di validi ed opponibili patti di compensazione tra crediti e debiti, fino al provvedimento di sospensione dei rapporti bancari. È legittima la condotta della Banca che operi la compensazione debiti/crediti con riferimento alle operazioni di "anticipazione bancaria regolate in conto corrente", effettuate dalla Banca prima dellammissione della Società correntista alla procedura di concordato preventivo, in presenza di un contratto di conto corrente che è proseguito dopo lapertura della procedura di pre-concordato fino al momento della sospensione del rapporto. Quando il rapporto bancario prosegue nel corso della procedura concordataria, con piena efficacia di tutte le clausole pattizie ad esso riconducibili, anche il patto di compensazione, inscindibilmente interdipendente alloperazione creditizia è destinato ad operare in corso di procedura, finchè non intervenga una causa di scioglimento del rapporto, e ciò in deroga al principio di parità di trattamento dei creditori che impedisce il pagamento. E quanto disposto dal Tribunale di Monza, giudice dott. Mirko Buratti, nellambito di un procedimento ex art. 700 cpc, con cui una società ammessa alla procedura di concordato preventivo ha chiesto ordinarsi ad un Istituto di credito di mettere a disposizione le somme incamerate dallIstituto a titolo di compensazione, a partire dalla data di ammissione della società alla procedura di concordato. In particolare, la banca aveva operato la compensazione di debiti/crediti relativi alle operazioni di "anticipazione bancaria regolate in conto corrente", trattenendo le somme derivanti da crediti ceduti in favore dellIstituto a fronte di anticipazioni erogate alla società. Al contempo, la società in concordato aveva ottenuto dal Tribunale la sospensione del rapporto bancario ai sensi dellart. 169 bis lf. Il Tribunale di Monza affronta, pertanto, la questione attinente alla legittimità della condotta assunta dallIstituto di credito, nell'operare la compensazione debiti/crediti con riferimento alle operazioni di "anticipazione bancaria regolate in conto corrente", effettuate dalla Banca prima dellammissione della Società correntista alla procedura di concordato preventivo (nella specie, ancora nella fase con riserva) in presenza di un contratto di conto corrente che è proseguito dopo lapertura della procedura di pre-concordato fino al momento della sospensione del rapporto. Il Tribunale, correttamente, mette a fuoco la problematica, evidenziando come si tratti di stabilire se la Banca abbia diritto di trattenere le somme versate da terzi a seguito della presentazione delle ricevute e di "compensarle" attraverso il mezzo tecnico delle annotazioni sul conto ad attivo della Società correntista, ma ad elisione delle partite di segno opposto, ovvero, se deve considerarsi obbligata a consegnare dette somme all'imprenditore in concordato preventivo. Sul punto, si riporta, in primis, il consolidato orientamento della Suprema Corte secondo cui - ferma la proseguibilità e la concreta prosecuzione del rapporto bancario durante la procedura concorsuale minore - occorre distinguere a seconda che la convenzione relativa alla operazione di anticipazione di ricevute bancarie regolata in conto preveda, o no, una clausola che attribuisca alla banca il diritto di "incamerare" le somme riscosse, ossia il c.d. patto di compensazione o, secondo altra definizione, il patto di annotazione e di elisione nel conto delle partite di segno opposto; e secondo cui, nell'ipotesi affermativa, la banca ha diritto di "compensare" il suo debito per il versamento al cliente delle somme riscosse, con il proprio credito verso lo stesso cliente conseguente ad operazioni regolate nel medesimo conto corrente, a nulla rilevando che il suo credito sia anteriore alla ammissione alla procedura ed il suo debito posteriore (cfr. Cass. 1° settembre 2011 n.17999, Cass. 5 agosto 1997 n.7194, 23 luglio 1994 n. 6870). Viene, pertanto, correttamente evidenziato come dal principio che l'ammissione alla procedura di concordato preventivo non determina lo scioglimento del rapporto di conto corrente bancario e di quelli di volta in volta in esso confluenti discenda necessariamente che la prosecuzione attiene al rapporto nella sua interezza e si estende a tutte le clausole pattizie che lo regolano, ivi compresa quella con la quale le parti hanno attribuito alla banca il diritto di "incamerare" le somme riscosse per conto del correntista. Secondo il ragionamento della Suprema Corte, risulta inammissibile, qualsiasi costruzione giuridica incentrata sulla prosecuzione - nel corso di una procedura concorsuale minore - del complesso unitario rapporto di conto corrente bancario, ma con esclusione del patto, (inscindibile rispetto a quel rapporto) della "compensazione". Orbene, il Tribunale osserva come nella fattispecie in esame vi fosse un patto di compensazione, opponibile alla procedura concordataria, dal momento che quando il rapporto bancario nel suo complesso prosegue in corso di procedura, come nella fattispecie accaduto, con piena efficacia di tutte le clausole pattizie ad esso riconducibili, è necessariamente antecedente allapertura della procedura, con la conseguenza che anche il patto di compensazione, inscindibilmente interdipendente alloperazione creditizia è destinato ad operare in corso di procedura, finchè non intervenga una causa di scioglimento del rapporto, e ciò in deroga al principio di parità di trattamento dei creditori che impedisce il pagamento. A questo punto, si precisa, come solo attraverso il ricorso allo strumento autorizzativo dello scioglimento o della sospensione del rapporto contrattuale, di cui allart. 169 bis lf, sia possibile neutralizzare gli effetti dei contratti in essere ritenuti pregiudizievoli, con conseguente effetto caducatorio dei patti (principali ed accessori) assunti antecedentemente, a condizione che ciò avvenga in regime di reciprocità, cioè che vi sia il contestuale venir meno anche dei vantaggi che sarebbero derivati dalla loro sopravvivenza. Nel caso di specie, il Tribunale aveva autorizzato la sospensione del rapporto bancario, per cui, correttamente, si rileva come i rapporti bancari siano regolarmente proseguiti dopo la presentazione della domanda di concordato con riserva finché non è intervenuta la sospensione dei relativi contratti pendenti tra le parti per effetto del provvedimento adottato dal Tribunale. Sulla base dei principi in precedenza esposti, il Tribunale giunge a ritenere legittimamente incamerati e trattenuti, per effetto dei validi patti di compensazione tra crediti e debiti, gli importi pervenuti alla Banca successivamente alla data di deposito della domanda di concordato preventivo con riserva e tanto fino alla data del deposito dell'istanza di scioglimento o sospensione dei rapporti bancari, data alla quale devono ricondursi gli effetti sostanziali del provvedimento di sospensione successivamente intervenuto. In conclusione, il Tribunale ha accolto la domanda cautelare relativamente ai soli incassi intervenuti, in favore della Banca, successivamente alla data del deposito dell'istanza di scioglimento o sospensione dei rapporti bancari....
VALIDA LA DICHIARAZIONE ANNUALE TRAMITE IL MODELLO IVA 74 BIS
Nessun rilievo può essere mosso al curatore che presenti correttamente e nei termini di legge il modello IVA previsto dall'art. 74 bis del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 contenente tutti i dati non risultanti dalla dichiarazione annuale IVA relativi al dettaglio delle operazioni effettuate nel periodo anteriore alla dichiarazione di fallimento. Con il regolare deposito del modello IVA 74 bis, il curatore adempie infatti all'onere di presentare la dichiarazione IVA in relazione al periodo pre fallimentare con conseguente diritto alla detrazione del credito d'imposta. Sono questi i principi sanciti dalla Suprema Corte di Cassazione, sezione V, nella sentenza n. 28283 del 18 dicembre 2013. La vertenza nasceva dal fatto che l'Agenzia delle Entrate aveva emesso una cartella di pagamento nei confronti del fallimento di una società per azioni per omessa presentazione della dichiarazione annuale IVA relativa all'anno di imposta 2000. La curatela fallimentare presentava a questo punto ricorso avanti alla Commissione Tributaria Provinciale di Milano che accoglieva l'impugnazione, ma la sentenza favorevole al contribuente fu successivamente riformata dalla Commissione Tributaria Regionale della Lombardia che accolse i motivi di doglianza sollevati dall'Agenzia delle Entrate. Il fallimento proponeva pertanto ricorso per cassazione, lamentando la violazione e la falsa applicazione dell'art. 8 del D.P.R. 22 luglio 1998, n. 322, con particolare riferimento agli effetti giuridici del modello IVA 74 bis. La curatela fallimentare contestava il fatto che la Commissione Tributaria Regionale della Lombardia aveva attribuito un valore decisivo ad un mero errore formale e conseguentemente negato l'efficacia della dichiarazione contenuta nel modello IVA 74 bis. Nell'esaminare la questione, la Corte di Cassazione si è inizialmente soffermata su quanto disposto dall'art. 8, comma 4, del D.P.R. 22 luglio 1998, n. 322. L'art. 8, comma 4, del D.P.R. 22 luglio 1998, n. 322 prevede che le dichiarazioni annuali in materia di imposta sul valore aggiunto, sempre che i relativi termini di presentazione non siano ancora scaduti, deve essere presentata dai curatori o dai commissari liquidatori. Per quanto concerne le operazioni registrate nella parte dell'anno solare anteriore alla dichiarazione di fallimento o alla dichiarazione di liquidazione coatta amministrativa, i curatori o i commissari liquidatori, entro 4 mesi dalla nomina, debbono presentare anche l'apposita dichiarazione al competente ufficio IVA o delle entrate, ove istituito, ai fini dell'eventuale insinuazione al passivo della procedura concorsuale. Entrando nel merito della questione, la Corte di Cassazione rilevava, con riferimento all'anno di imposta 1998, il fatto che fosse stata regolarmente presentata la dichiarazione annuale IVA, mentre il curatore fallimentare aveva presentato, entro 4 mesi dalla nomina, il modello IVA 74 bis relativo al periodo prefallimentare. La Corte di Cassazione accertava inoltre che il curatore fallimentare aveva riportato nel modello IVA 74 bis sia il credito IVA maturato nel periodo anteriore alla dichiarazione di fallimento sia il credito IVA per il periodo di imposta dell'anno 1998. Per il periodo successivo alla dichiarazione di fallimento, la Corte di Cassazione evidenziava che il curatore fallimentare aveva presentato la dichiarazione nell'anno 2000, ma quest'ultima risultava inesatta perché il credito IVA era stato rappresentato come un credito IVA inerente alla frazione di periodo postfallimentare e non anche quella pre fallimentare contenuta nel modello IVA 74 bis. Era pertanto emerso che il curatore fallimentare aveva omesso di compilare il quadro relativo al dettaglio delle operazioni rilevanti ai fini IVA relative alla frazione del periodo pre fallimentare avendo riportato solo quelle del periodo post fallimento, sebbene ne avesse indicato l'ammontare nel saldo a credito. La Corte di Cassazione ha tuttavia ritenuto che il curatore fallimentare avesse comunque adempiuto all'onere di presentare la dichiarazione IVA per il periodo anteriore al fallimento. Ciò in ragione del fatto che aveva correttamente presentato nei termini di legge il modello IVA 74 bis contenente tutti i dati non risultanti dalla dichiarazione annuale, relativi al dettaglio delle operazioni effettuate nel corso del periodo anteriore al fallimento. Per tali ragioni, il Supremo Collegio ha ritenuto che nessun motivo di contestazione potesse essere essere rivolto alla condotta tenuta dal curatore, accogliendo il ricorso da questultimo presentato e pronunziandosi anche nel merito ex art. 384 c.p.c., con conseguente soccombenza dellAgenzia delle Entrate. ...
Intermediazione finanziaria: annullabilità del contratto sotto il profilo dellerrore
Lassenza di una corretta informazione da parte della banca in merito all'incidenza del prestito sull'investimento finanziario, nell'ambito dei contratti di acquisto di titoli obbligazionari, produce un vizio del consenso nella parte non edotta. Lerrore da parte del consumatore è, inoltre, essenziale, in quanto cade ex art. 1429, I co. n. 1) c.c. sulla natura del contratto. Lacquisto del prodotto finanziario, infatti, è cosa diversa dall'operazione complessiva desumibile dal collegamento negoziale con il prestito, ed è evidentemente riconoscibile dalla banca. La causa in concreto cambia, infatti, per effetto del collegamento negoziale e, cambiando uno dei requisiti essenziali ex art. 1325 c.c. varia giocoforza anche la natura del contratto (il senso delloperazione economica vista nella sua complessità). È questo il principio di diritto enunciato dal Tribunale di Taranto, seconda sezione, giudice relatore dott. Claudio Casarano, nella sentenza n. 2493 del 21/11/2013 Nel caso di specie la cliente di una banca acquistava dalla stessa un prodotto finanziario, stipulando un contratto per la compera di titoli obbligazionari, senza cedole e quindi senza utili, ma con la possibilità del solo eventuale realizzo al momento della vendita, con la garanzia di un rendimento minimo pari al 132,50% del valore nominale, che era stato all'inizio fissato in euro 9.000,00. Il prezzo dell'acquisto veniva finanziato dalla stessa banca con un prestito, da restituire con rate mensili. La cliente, accorgendosi che il piano finanziario accettato si atteggiava in maniera del tutto diversa da come aveva supposto, citava in giudizio la banca denunciando in particolare la mancata informazione sui rischi delloperazione, oltre che lesistenza di un conflitto di interessi, chiedendo, perciò, la risoluzione del contratto stesso per inadempimento a norma dellart.1453 c.c. ed in via subordinata il suo annullamento. La banca convenuta, dal canto suo, sosteneva che lattrice fosse in realtà informata del rischio delloperazione finanziaria, come deducibile dal foglio informativo sottoscritto dalla stessa. Il Tribunale di Taranto, seguendo lorientamento della Suprema Corte, ha escluso la risoluzione del contratto sulla base del principio per il quale in tema di intermediazione finanziaria, la violazione di informazione del cliente e di corretta esecuzione delle operazioni che la legge pone a carico dellintermediario, può dar luogo esclusivamente ad una responsabilità precontrattuale con conseguenze risarcitorie, ove queste violazioni si verifichino nella fase antecedente o coincidente con la stipulazione del contratto di intermediazione destinato a regolare i successivi rapporti tra le parti ( cd. contratto quadro). Il Giudice di prima istanza, accogliendo la domanda subordinata, ha, però annullato il contratto, nel mentre trovava ancora regolare esecuzione, sotto il profilo dellerrore, sottolineando che seppure lattrice aveva stipulato nelle forme di legge lacquisto del prodotto finanziario, e che le era stata data informazione con apposito modulo del tipo di speculazione prevista, è pur vero che si ci trovava dinnanzi ad una grave lacuna sul piano delladeguata informazione. Il dato relativo alla rischiosità delloperazione era fuorviante, non trattandosi di un piano finanziario a medio- alto rischio, senonché di un investimento complesso, nella quale linformazione si era avuta a riguardo di uno solo dei contratti che caratterizzavano lintera operazione. Non si è trattato quindi, per il consumatore, di un errore sulla convenienza dellaffare, di certo mai foriero della invalidità del contratto, come si desume dal costante orientamento della cassazione. Tale esito ci sarebbe stato se si fosse trattato di un solo investimento ad alto rischio, relativo alla variazione in un dato tempo dei titoli acquistati sul mercato nazionale od internazionale, al contrario era unoperazione più complessa di cui il consumatore occasionale non poteva di certo venire a conoscenza con propri mezzi. In conclusione Il Tribunale di Taranto ha deciso lannullamento del contratto di intermediazione finanziaria e la restituzione da parte della banca non solo delle somme versate a titolo di rate ma anche di ogni altra somma correlata alla stipula del contratto....
Il conto cointestato non implica lanimus donandi del marito nei confronti della moglie
La cointestazione di un conto corrente, attribuendo agli intestatari la qualità di creditori o debitori solidali dei saldi del conto (art.1854 Cc) sia nei confronti dei terzi, che nei rapporti interni, fa presumere la contitolarità dell'oggetto del contratto (art. 1298,secondo comma, Cc), ma tale presunzione dà luogo soltanto all'inversione dell'onere probatorio, e può essere superata attraverso presunzioni semplici - purché gravi, precise e concordanti - dalla parte che deduca una situazione giuridica diversa da quella risultante dalla cointestazione stessa, dovendo dunque annullarsi la sentenza che riconduce cointestazione del conto la donazione del cinquanta per cento delle somme versate nel tempo dal uno dei contitolari sul conto, in quanto l'animus donandi non poteva essere riconosciuto sulla sola base di detta contestazione mentre il giudice avrebbe dovuto invece motivare sullo spirito di liberalità che assisteva ogni versamento. Questo il principio di diritto stabilito dalla Cassazione civile, seconda sezione, con la sentenza n. 809 pronunciata in data 16 gennaio 2014,in materia di conto corrente cointestato. In particolare, una signora aveva proposto appello avverso la sentenza del Tribunale di Monza che aveva dichiarato il marito esclusivo proprietario delle somme riportate nel conto deposito titoli cointestato ai coniugi, acceso preso un istituto di credito. La Corte dAppello di Milano, in parziale riforma della sentenza impugnata, aveva dichiarato, invece, il marito proprietario solo per il 50% dei soldi depositati sul predetto conto, sul presupposto che la cointestazione del conto alla moglie realizzasse una donazione indiretta alla stessa, di metà del valore delle somme in esso contenute, anche se acquisite con denaro pacificamente proveniente dalle sole disponibilità del marito. Proposto ricorso per Cassazione, la suprema Corte, chiamata a pronunziarsi sul caso de quo, accoglieva le doglianze del ricorrente, stabilendo che la cointestazione di un conto a sé e alla moglie non prova la sussistenza dellanimus donandi e non realizza, perciò, una donazione indiretta in favore della stessa, per la metà delle somme versate sullo conto. Nel caso di specie la provvista era costituita soltanto dai redditi del ricorrente, il quale aveva precisato che la decisione di cointestare il conto, costituiva un modo per coinvolgere la moglie nelleconomia familiare a fronte delle sue innumerevoli lagnanze, la Suprema Corte conclude per il mancato spirito di liberalità da parte del marito. La presunzione che dalla cointestazione del conto derivi anche la contitolarità delloggetto del contratto, da luogo esclusivamente ad un inversione dellonere della prova, e si può superare per presunzioni semplici gravi, precise e concordanti- dalla parte che deduce una situazione diversa da quella derivante dalla cointestazione stessa. Conclusivamente, la doppia firma sul conto non è sufficiente a presumere la donazione indiretta essendo indispensabile la prova dello spirito di liberalità da parte del solo dei coniugi che alimenta la provvista....
MUTUO IPOTECARIO: la mancata concessione del frazionamento puo essere causa di danni
Il principio di correttezza e buona fede deve essere inteso in senso oggettivo ed enuncia un dovere di solidarietà, fondato sull'art. 2 Cost., che, operando come un criterio di reciprocità, esplica la sua rilevanza nell'imporre a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dellaltra, a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge, sicchè dalla violazione di tale regola di comportamento può discendere, anche di per sé, un danno risarcibile. Con sentenza del 14/10/2013, n.23232, la Corte di Cassazione Civile, confermando il provvedimento emanato dal Giudice della seconda istanza di Salerno, condannava la banca al risarcimento del danno relativo alla violazione degli obblighi di correttezza e buona fede nell'esecuzione del contratto di mutuo, connessa alla mancata concessione del frazionamento dello stesso. In sintesi, nel caso di specie, unimpresa edile conveniva in giudizio la sua banca, chiedendo la condanna della stessa al risarcimento del danno causato dal considerevole ritardo ( oltre tre anni) nella concessione del frazionamento dei mutui, con le relative ipoteche, richiesto dalla srl a seguito della vendita a terzi delle singole unità immobiliari edificate. Se il Tribunale in primo grado aveva rigettato la domanda attorea, motivando tale decisione alla stregua che le pattuizioni tra le parti prevedevano il frazionamento solo come mera eventualità, la Corte dAppello prima e la Cassazione poi, decidevano, invece, in riforma della predetta sentenza di primo grado, condannando la banca a risarcire limpresa in questione. La Corte di legittimità ha fondato la sua decisione sul presupposto che, seppure applicabile al caso in esame la normativa in vigore precedentemente al T.U. n. 385 del 1993, la quale individuava il frazionamento del mutuo come non già un obbligo, bensì una facoltà da parte dellistituto di credito, ciò nondimeno il comportamento del soggetto mutuante, nel procrastinare il rifiuto di aderire ad una prassi consolidata, come quella del frazionamento del mutuo appunto, costituiva una palese violazione dei doveri di solidarietà, consequenziali al rispetto dei principi di correttezza e buona fede oggettiva, da porsi alla base dellesecuzione di qualsiasi contratto. Il principio di correttezza e buona fede deve essere inteso, infatti, in senso oggettivo, sottendendo una solidarietà reciproca imposta a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio. Il dovere è quello di agire in maniera tale da preservare gli interessi dellaltra parte, a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o da quanto stabilito in singole norme di legge, sicchè la violazione di tali regole comportamentali presuppone anche di per sé un danno risarcibile. ...