Ex Parte Creditoris

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Aggiornato: 1 ora 45 min fa

REVOCATORIA ORDINARIA - PROVA DEL CONSILIUM FRAUDIS - CONSAPEVOLEZZA DELLE DIFFICOLTÀ ECONOMICHE DELLA VENDITRICE

Mer, 26/03/2014 - 11:08
La prova della consapevolezza in capo all’acquirente convenuto in revocatoria può essere data per presunzioni ex art. 2729 cc attraverso l’apprezzamento di una serie di indizi gravi, precisi e concordanti.  La mancata prova delle forme, dei tempi e della effettività stessa del pagamento del residuo prezzo di vendita; l’esiguità del prezzo e la consapevolezza dell’acquirente, l’essere stata la vendita seguita in ogni aspetto giuridico e tributario dal padre dell’acquirente, commercialista della società poi dichiarata fallita qualche tempo dopo la vendita, della quale parte venditrice era stata amministratrice ed era garante costituisce la prova indiziaria della conoscenza in capo a parte acquirente delle difficoltà economiche in cui versava la venditrice per i debiti contratti e della finalità dell’atto, quella di sottrarre il descritto immobile all’aggressione del ceto creditorio. Così si è pronunziato il Tribunale di Nola, GI dr. Eduardo Savarese, con la sentenza del 27/2/2014, che ha accolto la domanda di revocatoria proposta dai creditori, avente ad oggetto l’atto di compravendita posto in essere dal debitore in epoca successiva al sorgere del credito. La sentenza è conforme al consolidato principio per il quale la prova del requisito della consapevolezza di arrecare pregiudizio agli interessi dei creditori può essere fornita anche mediante presunzioni precise e concordanti, che possono essere tratte da elementi indiziari valutati nel loro complesso, la cui consapevolezza - ai fini dell'azione esercitata ex art. 2901 comma primo n. 2 cc - consiste nella generica conoscenza del pregiudizio che l'atto posto in essere dal debitore può arrecare alle ragioni dei creditori. Ebbene nel caso in esame gli elementi che hanno fornito la prova indiziaria della conoscenza in capo a parte acquirente delle difficoltà economiche in cui versava la venditrice per i debiti contratti e della finalità dell’atto, quella di sottrarre il descritto immobile all’aggressione del ceto creditorio, sono stati i seguenti: -la mancata prova della negoziazione dell’assegno del residuo prezzo di vendita; -l’esiguità del prezzo e la consapevolezza di tanto in capo all’acquirente; -la circostanza che il padre dell’acquirente, che aveva curato la vendita, era commercialista della società di cui la venditrice era amministratrice. In conclusione la consapevolezza del pregiudizio che l’atto dispositivo arreca ai creditori può essere demandata attraverso l’apprezzamento di elementi indiziari gravi, precisi e concordanti. Per altri commenti correlati si veda: REVOCATORIA ORDINARIA – ALIENAZIONE SUCCESSIVA – OBBLIGO DEL PRIMO ACQUIRENTE DI RISARCIRE IL CREDITORE nella revocatoria ordinaria il creditore può rivalersi, in caso di alienazione successiva, sul corrispettivo ricevuto dal primo acquirente. Ordinanza | Tribunale Napoli - Collegio seconda sezione civile | 28-06-2011 | n.10836 REVOCATORIA ORDINARIA: CHI VANTA UN CREDITO LITIGIOSO È LEGITTIMATO AD AGIRE non ricorrono i presupposti per la sospensione necessaria di un giudizio per revocatoria ordinaria ex art. 2901 cc qualora il credito dedotto a fondamento della stessa sia litigioso. Sentenza | Tribunale di Napoli, sezione terza, Giudice Unico dott. Ettore Pastore Alinante | 13-11-2012 | n.12293 REVOCATORIA ORDINARIA: IL CREDITORE, PUÒ AGIRE GIUDIZIALMENTE ANCHE SE IL CREDITO È SOGGETTO A CONDIZIONE O A TERMINE Il credito eventuale in veste di credito litigioso è idoneo a determinare l’insorgere della qualità di creditore che abilita all’esperimento dell’azione revocatoria. Sentenza | Tribunale di Napoli, Giudice Unico dott. Giovanni Tedesco | 13-12-2012 | n.13505...

PROVVIGIONE: sorge come conseguenza dell’obbligo alla stipula di una vendita

Mer, 26/03/2014 - 10:27
Il diritto alla provvigione ex art. 1755 c.c. sorge quando sia sorto un obbligo alla stipula di una vendita, di cui siano individuati i termini essenziali, ed il cui inadempimento sia sanzionabile anche solo con il risarcimento del danno (ex art. 1218 c.c.). È quanto espresso dal dott. Claudio Casarano, Giudice del Tribunale di Taranto, che con sentenza n. 902 del 24-03-2014 si è occupato di stabilire quando ricorre l' "affare" che, ex art. 1755 c.c., fa sorgere il diritto alla provvigione. Il caso di specie trae origine da una proposta irrevocabile di acquisto, che aveva anche il contenuto di un contratto preliminare di acquisto di immobile e non già una semplice opzione. Ed invero, nella proposta di acquisto che l’agenzia faceva sottoscrivere erano indicati, non solo tutti gli elementi identificativi della futura vendita (la data entro la quale sarebbe dovuta avvenire la stipula del rogito, il prezzo e le caratteristiche del bene), ma era anche espressamente prevista la valenza dello stesso contratto come preliminare, essendo inclusa la seguente dicitura: “Conclusione del contratto preliminare. La presente proposta si perfeziona in vincolo contrattuale (contratto preliminare) non appena il proponente avrà conoscenza dell’accettazione della proposta stessa da parte del venditore…”. Pertanto, spiega il Giudice, alcun rilievo può assumere la difesa della parte che fa leva sul principio di diritto in base al quale la ricorrenza di un semplice negozio preparatorio, quale ad esempio l’opzione, non fa sorgere il diritto alla provvigione, atteso che, in tal caso, solo una delle parti è vincolata alla proposta, mentre l’altra è libera di accettarla o meno. In realtà, il testo contrattuale sottoposto all’attenzione del Tribunale, aveva le caratteristiche di un vero e proprio preliminare sol che fosse seguita la conoscenza dell’accettazione della proposta da parte dello stesso proponente. In altri termini, avvenuta la comunicazione al proponente dell’accettazione della proposta (preliminare) ad opera del proprietario del bene individuato, l’affare doveva ritenersi concluso per l’agenzia ex art. 1755 c.c., con conseguente diritto alla provvigione. Deve infatti considerarsi, che in virtù del preliminare, sorge l’obbligo della conclusione del definitivo per i contraenti; peraltro sanzionabile con l’esecuzione in forma specifica ex art. 2932 c.c.. o, quando non è in concreto possibile, con il risarcimento del danno ex art. 1218 c.c.( equivalente monetario del bene promesso in vendita). Ed infatti: "...Il diritto alla provvigione ex art. 1755 c.c. sorge quando sia sorto un obbligo alla stipula di una vendita, di cui siano individuati i termini essenziali, ed il cui inadempimento sia sanzionabile anche solo con il risarcimento del danno ( ex art. 1218 c.c.)...” In conclusione, il Tribunale di Taranto ha rigettato l'opposizione a decreto ingiuntivo, condannando l'opponente al pagamento delle spese di giudizio....

REVOCATORIA FALLIMENTARE: la prescrizione decorre dall’apertura del fallimento, anche se preceduto da concordato

Mer, 26/03/2014 - 09:37
In caso di consecuzione tra la procedura di concordato preventivo e quella di fallimento, i termini di cui all’art.67 l.fall., sono da calcolare a ritroso dalla data di ammissione alla procedura concordataria, mentre il termine di cui all’art.2935 c.c., comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere, ovvero a far tempo dall’apertura del fallimento. Ai fini della prova della scientia decotionis, deve riconoscersi, in assenza di diverse allegazioni e ricostruzioni circa l’andamento del rapporto, che l’esposizione debitoria maturata dalla società su un conto corrente non affidato costituisce sintomo della fiducia della banca che ha consentito alla società poi fallita di operare allo scoperto. Questi i principi enunciati dalla Corte d’Appello di Napoli, prima sezione civile, con la sentenza n.1287 del 21/03/2014, nell’ambito di un giudizio di revocatoria fallimentare proposto da una curatela sul presupposto che alla procedura di concordato era seguita la dichiarazione di fallimento. In particolare, il Tribunale in primo grado aveva rigettato la domanda attorea sul presupposto della intervenuta prescrizione del diritto, richiamando il principio della giurisprudenza della Suprema Corte, secondo il quale "nell'ipotesi di fallimento dichiarato nel corso della procedura di concordato preventivo il termine (quinquennale, ex art. 2903 c c.) per la proposizione delle azioni revocatorie fallimentari previste dall'art. 67 1. fall., decorrono dalla data del decreto di ammissione alla procedura di concordato preventivo e non da quella della sentenza dichiarativa di fallimento, attesa la unificazione e la continuità nel passaggio dall'una procedura all'altra" (Cass. Civ., 27.10.1995, n. 11216). La Corte d’Appello di Napoli, pur confermando, nel merito, il rigetto della domanda, ha evidenziato come il giudice di prime cure avesse operato una sovrapposizione dei due distinti profili (termini del periodo sospetto e termini di prescrizione dell'azione), ritenendo che nel caso di specie non ricorresse alcuna prescrizione del diritto, posto che esso era stato esercitato giusta atto di citazione notificato entro cinque anni dalla data della dichiarazione di fallimento. Sul punto la Corte chiarisce, infatti, che “i termini di cui all'art. 67 l.fall. non sono quelli di prescrizione del diritto, come considerato dal primo giudice, ma si riferiscono ai termini dei cd. periodi sospetti, che nel caso che occupa è quello di un anno da calcolare, in base al consolidato principio giurisprudenziale sopra citato, a ritroso dalla data di ammissione alla procedura concordataria. Del tutto distinto da tale termine è quello di prescrizione, che concerne l'esercizio dell'azione, il quale, ai sensi dell'art. 2935 ce, comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere ovvero a far tempo dall'apertura del fallimento, come pure chiarito dalla lezione del Supremo Collegio”. Con riferimento al merito della domanda di inefficacia ex art. 67 I. fall. delle rimesse bancarie, la Corte ha rigettato la stessa sul presupposto della mancanza del requisito soggettivo della scientia decotionis. Già nel corso del giudizio di primo grado, la banca convenuta aveva eccepito come lo stesso non potesse desumersi né dal riferimento ai bilanci, i quali non presentavano indici patrimoniali tali da far presumere la sussistenza dello stato di insolvenza della società, né, a maggior ragione, dalla natura di "operatore qualificato" della banca, occorrendo al tal fine una conoscenza effettiva e concreta della condizione di indebitamento non desumibile dalla mera posizione soggettiva rivestita dal creditore, tanto anche in considerazione del fatto che non era stata provata la circostanza della consegna dei bilanci dell’Istituto di credito.  La Corte, al riguardo, ha chiarito come nessuno dei sopramenzionati elementi risultasse, infatti, idoneo a fornire la prova in oggetto, sottolineando in primis che “la natura di operatore economico qualificato della banca costituisce argomento che, di per sé, non prova nulla, valendo semmai solo a giustificare, nel quadro di un contesto indiziario già sintomatico della conoscenza dello stato di insolvenza, la percezione dì esso da parte dell'istituto di credito in base al criterio del più probabile che non. Ai fini di tale prova, aggiunge la Corte d’Appello, come debba, in realtà, “riconoscersi, in assenza di diverse allegazioni e ricostruzioni circa l'andamento del rapporto, che l'esposizione debitoria maturata dalla società sul conto corrente non affidato costituisca sintomo della fiducia della banca che ha consentito alla società di operare allo scoperto”. In conclusione, La Corte d’Appello di Napoli ha confermato la sentenza di primo grado di rigetto della domanda....

ABUSO DEL PROCESSO: CONDANNA PER LITE TEMERARIA

Mar, 25/03/2014 - 14:30
Integra un’ipotesi di abuso del processo la condotta della parte processuale che promuova un giudizio sulla base di una prospettazione giuridica del  tutto opposta rispetto a quella sostenuta in altro giudizio. E’ questo il principio di diritto statuito dal Tribunale di Verona, in persona del dottor Massimo Vaccari, con sentenza del 28/02/2014, in materia di abuso del processo e di lite temeraria ex art.96 terzo comma cpc. Nel caso di specie, la sentenza trae origine dall’azione esperita da una parte che aveva promosso il giudizio sulla base di presupposti giuridici opposti rispetto a quelli che aveva sostenuto in altro precedente giudizio nel quale era stata convenuta e che si era svolto tra le medesime parti.  Ebbene, il Giudice, chiamato a pronunziarsi sul caso de quo, ha condannato la condotta della parte istante che aveva promosso il giudizio sulla base di una prospettazione giuridica opposta rispetto a quella che aveva sostenuto in altro giudizio di cui era parte convenuta. Alla luce di tali considerazioni, il Tribunale, ritenuto che una simile condotta integrasse un’ipotesi di abuso del processo, connotato altresì dall’elemento soggettivo presupposto dall’art.96 terzo comma cpc, ha condannato l’attore soccombente al pagamento di una somma, equitativamente determinata, in favore della controparte. In motivazione, il Giudice ha altresì menzionato la sentenza n.703/13 del Consiglio di Stato, che aveva ravvisato un’ipotesi di abuso del processo nella condotta del ricorrente il quale aveva dedotto un motivo di impugnazione con cui aveva contestato la giurisdizione da lui stesso adita al fine di ribaltare l’esito negativo nel giudizio di merito.  In quell’occasione, il giudice amministrativo ha stabilito che una simile condotta fosse in palese contrasto con il divieto del venire contra factum proprium, posto a salvaguardia del generale divieto di abuso del diritto e del precetto di buona fede di cui il principio dell’abuso del processo è indubbio precipitato....

USURA BANCARIA: tasso di mora e tasso corrispettivo oggetto di autonoma valutazione

Mar, 25/03/2014 - 12:49
Tasso d’interesse corrispettivo e tasso d’interesse di mora non vanno sommati ai fini della verifica dell’usurarietà di un contratto di mutuo. Sostenere il contrario sarebbe un errore di carattere logico, oltre che giuridico. Quando gli interessi corrispettivi siano pattuiti “sotto soglia” e l’usurarietà derivi dall’applicazione dei soli interessi moratori, unicamente questi ultimi saranno “colpiti” dalla sanzione della nullità ex art.1815, secondo comma cc. Lo ha ribadito il Tribunale di Trani, in persona del Giudice dott.ssa Francesca Pastore, con ordinanza del 10-03-2014, “gemella” della pronuncia già oggetto di pubblicazione – e di ampio dibattito – su questa rivista. Il caso di specie è perfettamente sovrapponibile a quello vagliato nella decisione appena citata: il mutuatario deduce l’usurarietà dello stipulato contratto, affermando che, sulla scorta di quanto sancito dalla - ormai nota – sentenza 350/2013 della Corte di Cassazione, interesse corrispettivo ed interesse di mora vanno sommati ai fini della valutazione del superamento del tasso soglia. Netto, anche in questo caso, il rigetto di tali argomentazioni. Verificato preliminarmente che le parti avevano “pattuito un tasso diverso e alternativo per due differenti tipologie d'interessi, applicabili in ipotesi distinte e alternative”, il Giudice pugliese ha “gioco facile” nell’affermare che la tesi del mutuatario poggia tutta su un'interpretazione errata e illogica dal chiaro dettato normativo e dello stesso contratto  Orbene (e l’espressione suonerà familiare ai lettori della nota all’ordinanza “gemella”) “sostenere che il tasso soglia ex L 108/1996 sarebbe superato per effetto della sommatoria fra il tasso debitore del mutuo e quello moratorio è un errore di carattere logico oltre che giuridico”. Alla luce della lettura delle pattuizioni contrattuali e di una valutazione sulla diversità “ontologica” dei due tipi di interesse (“gli interessi corrispettivi del mutuo […] rappresentano il prezzo dell'operazione di mutuo e il vantaggio che il mutuante riceve nel sinallagma, avendo le parti stabilito un mutuo di carattere oneroso. Nell'altro caso [degli interessi corrispettivi, ndr] si fissa la misura dell'interesse dovuto ove il rapporto entri nella patologia, cioè ove la parte mutuataria non paghi quanto dovuto per la restituzione del denaro ricevuto in prestito”) la tesi del mutuatario non può trovare accoglimento neanche sulla base, sic et simpliciter, di un’applicazione estensiva del principio statuito dalla Cassazione con la sentenza n.350/2014, sia perché le risultanze documentali di quel particolare caso di specie non sono note, sia perché l’onere di deduzione e di allegazione di parte ricorrente non può esaurirsi con “la sola invocazione di una pur autorevole pronuncia”, ma soprattutto perché la Cassazione mai ha affermato che il tasso moratorio va sommato a quello corrispettivo nella valutazione di usurarietà! Tale notazione, che su questa rivista si è ampiamente evidenziata in sede di commento critico alla stessa sentenza n.350/2013, sembra tuttavia non così scontata, atteso che, all’indomani della pubblicazione di detta pronuncia, sull’erroneo presupposto dell’additività dei due tipi di interesse, è proliferato il contenzioso in danno degli istituti di credito. L’ordinanza in commento, conformemente a quanto già stabilito dal Tribunale di Milano, sesta sezione, dott.ssa Laura Cosentini, ordinanza del 28 gennaio 2014 -   e dal Tribunale di Napoli, quinta sezione civile, dott. Enrico Ardituro, ordinanza del 28 gennaio 2014 - sgombra il campo da tale interpretazione distorta, giungendo all’importante conseguenza giuridica che la sanzione della nullità “punitiva” ex art.1815 cc, secondo comma, per il caso in cui l’interesse corrispettivo sia stato lecitamente pattuito, non può mai “colpire” l’intero ammontare degli interessi (corrispettivi e moratori), ma – attesa la necessità di valutare autonomamente le due clausole – riguarderà eventualmente solo il tasso di mora, quando l’applicazione di quest’ultimo determini lo sforamento della soglia antiusura (circostanza, quest’ultima, che fa propendere parte della dottrina per la configurazione di un fenomeno di “usura sopravvenuta”, con tutte le problematiche legate a tale concetto). L’orientamento della giurisprudenza di merito può dirsi ormai segnato, attesa anche la pesante condanna alle spese nei confronti del ricorrente, da cui può evincersi che la questione è giudicata meno “nuova” e “complessa” di quanto venga pubblicizzato da più parti....

Illegittimo l’avviso di accertamento notificato alla Società cancellata dal Registro delle Imprese

Mar, 25/03/2014 - 12:35
Illegittimo l’avviso di accertamento notificato alla Società cancellata dal Registro delle Imprese. L’invalidità travolge altresì i conseguenti provvedimenti esattivi notificati agli ex soci, poiché motivati per relationem all’avviso di accertamento insanabilmente viziato. È quanto emerge dalla sentenza emessa il 4 marzo 2014, dalla terza sezione della Commissione Tributaria Provinciale di Reggio Emilia. La res controversa su cui i giudici emiliani si sono pronunciati ha inizio nel 2008, allorquando una srl (a seguito di una trasformazione “evolutiva” da snc) era stata posta dapprima in liquidazione volontaria e successivamente cancellata dal Registro delle Imprese. A seguito di tale cancellazione, l’Agenzia delle Entrate procedeva a notificare alla “nuova” srl un avviso con cui accertava una maggiore imposta Ires, Iva ed Irap, contestando al contempo un maggiore imponibile Irpef agli ex soci. A detta dell’Amministrazione Finanziaria, infatti, l’estinta Società avrebbe dedotto costi per fatture considerate inesistenti in quanto “emesse da un imprenditore individuale che non avrebbe avuto la struttura tecnica necessaria per realizzare il volume d’affari dichiarato”. Ebbene, gli ex soci impugnavano l’atto de quo, contestando in nuce la legittimità della pretesa impositiva, in quanto l’accertamento sarebbe stato affetto da giuridica inesistenza per via, appunto, della cancellazione della Società dal Registro delle Imprese, così come sostenuto dalle Sezioni Unite della Cassazione nella celeberrima sent. n. 4062/2010. Doglianza che veniva pienamente accolta dai giudici di prime cure, i quali decretavano la nullità dell’avviso di accertamento a causa della mancanza di un elemento essenziale, ossia il soggetto destinatario, essendo l’avviso in contestazione “intestato ad un soggetto, ente societario, inesistente in quanto estinto”. Il Collegio giudicante, tuttavia, non si è limitato a questo aspetto, affermando altresì la nullità degli avvisi di accertamento notificati ai ricorrenti (questa volta ai fini Irpef) per carenza di motivazione, in quanto “motivati per relationem con un atto, a sua volta nullo”. Sarebbe venuto meno, quindi, da parte degli ex soci/amministratori, il potere di impugnare l’atto iure proprio, in quanto non si ricadrebbe in una delle fattispecie delineate dall’art. 36, DPR 602/73. Dalla lettura della sentenza in commento, si evince dunque che i Giudici di merito stanno procedendo a recepire le istruzioni “impartite” dalle Sezioni Unite della Cassazione che, già dal 2010 (per via della sentenza citata) e, più di recente con le Sentt. nn. 6070, 6071 e 6072 del 12 marzo 2013, hanno di fatto sancito la giuridica inesistenza degli atti tributari notificati alle Società estinte. Del pari viene sancita la parificazione degli effetti della cancellazione dal Registro delle Imprese sia per le società di capitali che per quelle di persone....

Illegittime per eccesso di delega le norme che puniscono la tardiva registrazione del contratto di affitto

Mar, 25/03/2014 - 11:31
La norma di cui ai commi 8 e 9, art. 3 del d.lgs. 23/2011, che prevede la riduzione dell’affitto minimo per i proprietari che non registrano i contratti d’affitto, è incostituzionale per eccesso di delega. Così si è pronunciata la Corte Costituzionale con sentenza n. 50 del 15/03/2014, che ha risposto alle censure di illegittimità costituzionale dei commi 8 e 9 dell’art. 3 del d.lgs. 23/2011 proposte su ordinanza del Tribunale di Salerno, al quale si sono aggiunte poi le istanze di altri giudici a quo. La norma in questione prevede che per i contratti di locazione d’immobili ad uso abitativo che non siano stati registrati nei termini stabiliti dalla legge, la disciplina stabilita dalle parti deve essere sostituita con quella legale: la durata della locazione viene fissata in quattro anni a decorrere dalla registrazione (volontaria o d’ufficio); il contratto di locazione deve essere rinnovato per altri quattro anni al momento della scadenza; il canone annuo deve corrispondere al triplo della rendita catastale, oltre l’adeguamento, dal secondo anno, pari al 75% dell’aumento degli indici ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie degli impiegati ed operai. Queste previsioni inoltre trovano applicazione anche nel caso in cui nel contratto di locazione sia stato indicato un importo inferiore a quello effettivo o si tratti di un comodato fittizio. Avverso questo assetto normativo i giudici a quo hanno evidenziato in primo luogo, sia pure con una varietà di accenti, la violazione degli artt. 3 e 76 Cost. È stato censurato, in violazione al principio di uguaglianza, che le sanzioni previste risultano ingiustificatamente penalizzanti per il locatore, atteso che sostituiscono il canone da esso stabilito con altro legale di ammontare irrisorio, e premiale, invece, per il conduttore, dando al contratto una durata di quattro anni rinnovabile per altri quattro ancora. Inoltre la disciplina determina una disparità di trattamento tra locazioni ad uso abitativo e locazioni ad uso commerciale e si porrebbe in contrasto con il principio di autonomia negoziale e con il disposto dell’art. 1419 c.c., in base al quale il contratto parzialmente nullo è fatto salvo solo ove che le parti lo avrebbero ugualmente concluso. Rispetto all’art. 76 Cost., poi, i giudici a quo osservavano che il decreto legislativo era uscito fuori dai confini della legge delega, in quanto questa aveva l’obiettivo di impedire l’evasione fiscale, al contrario la sanzione della mancata registrazioni nei termini di legge del contratto di locazioni mal si poteva conciliare con questo obiettivo. La risposta della Consulta si è fatta sentire principalmente in riferimento a quest’ultimo punto. La Corte ha osservato, infatti, che la legge delega ha come fine quello di “assicurare, attraverso la definizione di dei principi fondamentali del coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario e la definizione della perequazione, l’autonomia finanziaria dei comuni, provincie, città metropolitane e regioni nonché al fine di armonizzare i sistemi contabili e gli schemi di bilancio dei medesimi enti e relativi termini di presentazione e armonizzare i sistemi contabili e gli schemi di bilancio dei medesimi enti [..] in funzione delle esigenze di programmazione, gestione e rendicontazione della finanza pubblica”. In conclusione è evidente, continua la Corte, come il decreto legislativo sia del tutto estraneo rispetto alla normativa quadro, essendo lo stesso, volto semplicemente a sostituire la disciplina contrattuale con quella legale in caso di ritardata registrazione del contratto di locazione, senza avere quindi alcun legame con gli obbiettivi di politica fiscale della legge delega. Le disposizioni denunciate sono state, pertanto, dichiarate costituzionalmente illegittime per contrasto con l’art. 76 della Costituzione, restando assorbiti gli ulteriori profili di illegittimità prospettati. Per ulteriori approfondimenti in merito a tale argomento si rinvia all’articolo di questa rivista: CONTRATTO DI LOCAZIONE NON REGISTRATO E MAXI SANZIONE la sanzione prevista dal d. lgs. n. 23/2011 non si applica ai contratti di locazione stipulati prima della entrata in vigore dello stesso...

CONTRATTI DERIVATI: anche se sottoscritti per ridurre i rischi del tasso variabile sono giuridicamente distinti dal contratto di mutuo

Mar, 25/03/2014 - 09:37
Il contratto di interest rate swap è giuridicamente distinto dal contratto di mutuo sebbene economicamente e funzionalmente collegato a quest'ultimo per essere finalizzato all'eventuale riduzione dei rischi connessi alla applicazione del tasso variabile al mutuo, sicchè l'eventuale nullità del primo non ha alcuna influenza sulla validità ed efficacia del secondo. L'eventuale violazione di altre norme del D.lgs.n°58/98 che non determinano la nullità del contratto suddetto possono tutt'al più dar luogo ad un obbligo risarcitorio a carico della Banca e non incide sul diritto della stessa di procedere ad esecuzione forzata.  Questo è il principio affermato dal Tribunale di Bari, Giudice dott. Nicola Magaletti, con sentenza n. 1471 pubblicata il 20.3.2014, con la quale è stata rigettata l’opposizione proposta dal terzo datore di ipoteca avverso il  precetto con il quale era stato intimato il pagamento della somma dovuta alla Banca in virtù di un mutuo ipotecario a tasso variabile. L’intimato, infatti, con la proposta opposizione a precetto,  aveva chiesto dichiararsi l’insussistenza del diritto della Banca a procedere ad esecuzione forzata  sul presupposto che il debito oggetto della intimazione di pagamento sarebbe stato solo apparentemente contenuto in un titolo esecutivo contrattuale, essendo in realtà dissimulato da un diverso contratto intercorso tra Banca e debitore e, cioè, il contratto di Interest Rate Swap, che non essendo titolo esecutivo non legittimerebbe la Banca alla minacciata esecuzione e che il titolo contrattuale esecutivo che sottende lo stesso precetto non avrebbe di fatto regolamentato il rapporto. Nella fattispecie oggetto del sentenza in commento, la Banca aveva concesso un mutuo fondiario in virtù del quale era stata erogata la somma di euro 1.000.000,00 ed iscritta ipoteca volontaria e, contestualmente, la società mutuataria  aveva sottoscritto un  contratto di interest rate swap con capitale nozionale di euro 1.000.000,00 sottoscrivendo, altresì, la dichiarazione di operatore qualificato ex art. 31 del Regolamento Consob n. 11522/98. Il Tribunale ha rigettato, nel merito, l’opposizione a precetto ritenendo i relativi motivi  infondati  e confermando  le motivazioni dell’ordinanza con la quale veniva rigettata la richiesta di sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo esecutivo.  Il rigetto dell’opposizione, infatti, è stato fondato sul presupposto che la nullità del predetto mutuo fondiario non può essere dichiarata in relazione all’asserita nullità o invalidità del successivo contratto intercorso tra la società mutuataria e la Banca, poiché, anche laddove il contratto di interest rate swap fosse economicamente e funzionalmente collegato al contratto di mutuo, i due sono giuridicamente distinti sicchè l'eventuale nullità del primo non ha alcuna influenza sulla validità ed efficacia del secondo. Il Tribunale, rilevato che la questione relativa alla validità del contratto di interest rate swap non può essere oggetto del giudizio di opposizione a precetto, ha precisato che l'eventuale violazione di altre norme del D.lgs.n°58/98 non avrebbe determinato la nullità del contratto di mutuo suddetto ma potrebbe tutt'al più dar luogo ad un obbligo risarcitorio a carico della Banca con conseguente compensazione del credito della stessa con quello riconosciuto eventualmente a titolo risarcitorio che non incide sul diritto della Banca di procedere ad esecuzione forzata.  Il contratto di interest swap –chiarisce il Tribunale – “costituisce un posterius rispetto al contratto di mutuo sicchè mentre può in ipotesi affermarsi che la nullità del contratto di mutuo può determinare la nullità del contratto di interest swap al primo funzionalmente collegato non altrettanto può affermarsi nell’ipotesi contraria”. La decisione assunta dal Tribunale di Bari è legittima e condivisibile nell’affermare la autonomia giuridica del contratto interest rate swap e di mutuo in virtù del quale ha agito la Banca. Sul punto va rilevato che il contratto di interest swap può avere una funzione di copertura del tasso variabile del mutuo assicurando alle parti la possibilità di modificare il proprio tasso di indebitamento, senza incidere sulle condizioni del prestito contratto. Tale funzionalità ha consentito agli operatori finanziari di raggiungere vari obiettivi e tra questi quello di ridurre i rischi connessi con l’indebitamento a tasso variabile parametrato a particolari indici, ed il collegamento è solo funzionale  e sussistente ad un puro livello finanziario, senza assumere alcuna rilevanza sul piano giuridico. La stipulazione di un mutuo e di un interest rate swap a copertura del detto contratto  è un modello usuale di stipulazione finalizzato ad assicurare la cd “ricopertura” delle posizioni e l’esistenza di un eventuale “vincolo funzionale” non assume alcuna rilevanza sul piano giuridico. L’importo del capitale nozionale del contratto derivato è solo un valore di riferimento sulla base del quale vengono determinati i flussi finanziari ed, infatti, per la sottoscrizione di detto contratto, non vi è un esborso di denaro, ma lo stesso è funzionale alla copertura esclusiva del rischio di rialzo del tasso variabile, e  varia in funzione del piano di ammortamento del mutuo, con la conseguenza che l’operazione in derivati è meramente funzionale all’ammortamento del contratto di mutuo. Il contratto di mutuo è, quindi, e resta mutuo fondiario ed è, pertanto,  titolo esecutivo ex art. 474 cpc, e come tale idoneo ad essere azionato con il precetto....

ESECUZIONE FORZATA: è inopponibile ai creditori l’atto di destinazione unilaterale dei beni sottoposti a pignoramento

Lun, 24/03/2014 - 17:29
La disposizione di cui all’articolo 2645-ter cc non riconosce, sul piano sostanziale, la possibilità dell’autodestinazione unilaterale: l’interpretazione della norma deve avere luogo in coerenza con il sistema normativo caratterizzato dal principio generale della responsabilità patrimoniale illimitata e dal carattere eccezionale delle fattispecie limitative di tale responsabilità.  La norma, dunque, deve essere interpretata in modo restrittivo e, quindi, limitata alle sole ipotesi di destinazione traslativa, perché una diversa interpretazione avrebbe una portata eversiva del principio della responsabilità illimitata di cui all’art. 2740 cc. Così si è pronunziato il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, nella persona del Giudice dell’Esecuzione dr. Valerio Colandrea, che ha rigettato la richiesta di sospensione della procedura esecutiva avanzata dall’esecutato, sul presupposto dell’esistenza di un vincolo di indisponibilità ex art. 2645 ter cpc sui beni oggetto del pignoramento, derivante da atto pubblico trascritto in data antecedente alla trascrizione del pignoramento, dell’estraneità del credito posto a fondamento dell’esecuzione intrapresa al perseguimento del vincolo di destinazione e, dunque, dell’impossibilità per il creditore estraneo di domandare il soddisfacimento coattivo.  L’ordinanza analizza l’applicabilità nell’ambito della procedura esecutiva della disposizione di cui all’art. 2645 ter cpc, che prevede la possibilità di trascrivere atti in forma pubblica, con cui un soggetto (cd. conferente) costituisce, su beni immobili o mobili iscritti in pubblici registri, un vincolo di destinazione su una massa patrimoniale che, pur restando nella sua titolarità giuridica, assume, per la durata stabilita e non superiore a novanta anni, la connotazione di massa patrimoniale separata rispetto alla restante parte del suo patrimonio, a favore di soggetti individuati (cd. beneficiari) finalizzato a realizzare interessi meritevoli di tutela ai sensi dell’art. 1322 comma 2 cc. Nel caso posto all’attenzione del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere alcun dubbio si pone in ordine alla presenza del vincolo che assume i connotati di auto-destinazione a carattere unilaterale, costituito con un atto pubblico trascritto antecedentemente alla trascrizione del pignoramento, tuttavia non incide sul regolare svolgimento del processo esecutivo e tanto sia sulla base del dato  testuale della norma, sia per ragioni di ordine sistematico. La fattispecie negoziale correlata a tale disposizione, infatti, se pure assimilabile, quanto agli effetti prodotti (di tipo vincolativo), ad istituti giuridici già presenti nel nostro ordinamento, come il fondo patrimoniale oppure i patrimoni destinati a specifici affari, è caratterizzata da una connotazione del tutto atipica e peculiare, tenuto conto che non prevede né la tipizzazione delle possibili finalità, cui è preordinato il costituito vincolo di destinazione, né le specifiche regole preordinate all’amministrazione o alla gestione dei beni oggetto di vincolo, facendo riferimento alla sola compatibilità degli interessi sottesi alla costituzione dei vincoli con l’art. 1322 cc, che ammette la stipulazione di contratti atipici, purché diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela. Il generico riferimento agli interessi meritevoli di tutela comporta l’esigenza di conciliare il parametro della meritevolezza cui è preordinata la costituzione del vincolo di destinazione con l’interesse dei creditori del conferente all’integrità della garanzia patrimoniale secondo il principio generale contenuto nell’art. 2740 cc, in quanto la seconda parte dell’art. 2745 ter cc prevede che i beni conferiti e i loro frutti possono essere impiegati solo per la realizzazione del fine di destinazione e possono costituire oggetto di esecuzione soltanto per debiti contratti per tale scopo, purché, in conformità al disposto di cui all’art. 2915 cc primo comma l’atto di disposizione sia stato trascritto anteriormente al pignoramento. La disposizione costituisce, quindi, fattispecie limitativa della responsabilità, derogatoria rispetto al principio generale e, come tale, avente carattere eccezionale, per cui deve essere interpretata in senso restrittivo e ritenersi applicabile solo nel caso di destinazione traslativa....

CENTRALE RISCHI: è competente il Tribunale del luogo in cui ha la residenza il titolare del trattamento dei dati

Lun, 24/03/2014 - 11:13
Ogni controversia che riguardi il trattamento dei dati personali deve essere trattata secondo il rito del lavoro e dinanzi al Tribunale del luogo in cui ha residenza il titolare del trattamento dei dati, come disposto dall’art. 152 del d.lgs. 196/03. In tal guisa si è pronunciato recentemente il Tribunale di La Spezia, giudice dott. Ettore Di Roberto, con ordinanza del 29/01/2014, in relazione ad un ricorso cautelare promosso ai sensi dell’art.700 cpc. Nel caso di specie, un cliente lamentava dinanzi al Tribunale l’illegittimità della segnalazione del proprio nominativo alla Centrale Rischi della Banca d’Italia da parte di un istituto di credito con cui aveva avuto rapporti contrattuali, contestando che la comunicazione era avvenuta in violazione di legge sul trattamento dei dati personali. Il Giudice adito, però, ha dichiarato la propria incompetenza per territorio a favore di altro Tribunale, in considerazione del fatto che l’art.152 del d.lgs. 196/2003 prevede che le controversie concernenti il trattamento dei dati personali siano di competenza del Tribunale del luogo in cui ha residenza il titolare del trattamento dati, e, nella specie, la Banca segnalatrice alla Centrali Rischi della Banca d’Italia  Il Giudice ha, pertanto, dichiarato la propria incompetenza territoriale. Alla luce di tale decisione, si consolida l’orientamento giurisprudenziale, secondo il quale nelle controversie concernenti il trattamento dei dati personali è competente il Tribunale del luogo ove ha sede il titolare del trattamento dati. A conferma di tale principio, già oggetto di approfondimento su questa rivista, si segnala il seguente articolo: SEGNALAZIONE CENTRALE RISCHI - TRATTAMENTO DATI PERSONALI - PROCEDIMENTO CAUTELARE - COMPETENZA TERRITORIALE - LUOGO DI RESIDENZA DEL TITOLARE DEL TRATTAMENTO DATI...

IPOTECA GIUDIZIALE: l’accoglimento parziale dell’opposizione a decreto ingiuntivo non pregiudica la garanzia

Lun, 24/03/2014 - 10:22
In materia di opposizione a decreto ingiuntivo, nel caso di sentenza non definitiva di accoglimento parziale dell'opposizione e di revoca del decreto, resta ferma, ai sensi dell'art. 653, comma secondo, cpc, la conservazione degli atti di esecuzione già compiuti in forza dell'originaria esecutività del decreto, atti nei quali rientra anche l'ipoteca iscritta ai sensi dell'art. 655 cpc, nei limiti della somma o della quantità ridotta, quali risulteranno dalla sentenza definitiva. Così ha stabilito la Corte di Cassazione, sezione terza, con la sentenza n.21840 del 24.09.2014, chiamata a pronunciarsi in merito agli effetti della sentenza non definitiva, emessa in fase di cognizione, che revochi il decreto ingiuntivo opposto. Sulla base di tale decreto ingiuntivo, infatti, una banca creditrice procedeva all'iscrizione di ipoteca giudiziale su un bene di proprietà del debitore. Il Tribunale, sulla scorta appunto di tale sentenza non definitiva, accoglieva l'opposizione all'esecuzione del terzo acquirente, nel frattempo subentrato, dichiarando la nullità del precetto e del pignoramento. Secondo il giudice di primo grado, infatti, la sentenza non definitiva aveva fatto venir meno l'iscrizione ipotecaria, comportando, quindi, la perdita di efficacia di ogni atto espropriativo. Avverso tale decisione l'istituto di credito proponeva ricorso in Cassazione, sostenendo che la sopravvenuta sentenza definitiva di accoglimento parziale dell'opposizione avrebbe solo in parte modificato la portata del titolo, riformando il credito in termini di consistenza, e che però, l'iscrizione ipotecale avrebbe conservato piena efficacia. Con la decisione in esame, la Corte ha ribadito il già consolidato principio contenuto nella sentenza a Sezioni Unite 7 luglio 1993 n. 7448, per il quale "nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, che nel sistema delineato dal codice di procedura civile, si atteggia come un procedimento il cui oggetto non è ristretto alla verifica delle condizioni di ammissibilità e di validità del decreto stesso, ma si estende all'accertamento, con riferimento alla situazione di fatto esistente al momento della pronuncia della sentenza - e non a quello anteriore della domanda o dell'emissione del provvedimento opposto -, dei fatti costitutivi del diritto in contestazione, il giudice, qualora riconosca fondata, anche solo parzialmente, una eccezione di pagamento formulata dall'opponente (che è gravato dal relativo onere probatorio), con l'atto di opposizione o nel corso del giudizio, deve comunque revocare in toto il decreto opposto, senza che rilevi in contrario l'eventuale posteriorità dell'accertato fatto estintivo al momento dell'emissione suddetta, sostituendosi la sentenza di condanna al pagamento di residui importi del credito all'originario decreto ingiuntivo”. La Corte ha ribadito, infatti, che il giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo è un giudizio a cognizione ordinaria, che ha ad oggetto l’intera situazione giuridica controversa, e che occorre verificare, dunque, ai fini dell’accoglimento della domanda di condanna del debitore, la sussistenza dei presupposti di fatto e di diritto e le condizioni dell’azione. L’inesistenza, anche solo parziale di tali presupposti, continuano gli Ermellini, impone la revoca integrale del procedimento monitorio. I Giudici di legittimità, hanno affrontato, perciò, la questione relativa alla sorte dell’iscrizione ipotecaria nell'ipotesi in cui, come nel caso di specie, nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo si sia avuta una sentenza non definitiva contenente la revoca del decreto ingiuntivo, seguita da una sentenza definitiva di condanna del debitore al pagamento di una somma inferiore a quella del decreto ingiuntivo. La Corte ha deciso per l’applicabilità del disposto di cui all'art. 653, secondo comma, c.p.c. secondo il quale sono fatti salvi gli atti di esecuzione già compiuti sulla base del decreto revocato, poi sostituito da sentenza di riforma. Tale norma è valida anche nel caso di iscrizione di ipoteca giudiziale, considerando che per “atti di esecuzione già compiuti” devono intendersi tutti i possibili effetti dell’esecutività del decreto ingiuntivo stesso. Alla luce di tali considerazioni, e al fine di tutelare il creditore, il Supremo Collegio ha accolto il ricorso condannando il resistente al pagamento delle spese di giudizio. Sulla qualificazione del giudizio di opposizione quale giudizio che ha ad oggetto l’accertamento della pretesa creditoria, si veda: DECRETO INGIUNTIVO: EFFETTI DELLA TARDIVA NOTIFICA Il debitore può far valere l’inefficacia con il rimedio ordinario dell’opposizione. In mancanza, il decreto diventa definitivo. Articolo giuridico | 03-02-2014...

NOTIFICA A MEZZO PEC: si presume avvenuta quando la parte denuncia l’indirizzo nell’atto introduttivo

Ven, 21/03/2014 - 11:54
La notifica del decreto di perenzione mediante posta elettronica certificata si presume avvenuta solamente se la parte nell’atto introduttivo del giudizio, ovvero nel primo atto difensivo, ha dichiarato esplicitamente qual è l’indirizzo PEC dove intende ricevere le comunicazioni.  È questo il principio che ha chiarito il Consiglio di Stato con sentenza n.649, depositata l’11 febbraio 2014. Nel caso di specie un Comune ha contestato di non aver ricevuto adeguata comunicazione del decreto di perenzione per non aver presentato ricorso nei termini di legge. Il suddetto decreto secondo il Comune era stato notificato a mezzo Pec come previsto dall’art 136, comma 1 del nuovo codice di procedura amministrativa (decreto legislativo 104/10), il quale prescrive che i difensori delle parti devono indicare nel ricorso o nel primo atto difensivo, l’indirizzo di posta elettronica certificata dove ricevere le comunicazioni relative al processo e una volta data tale indicazione si presumono conosciute tutte le comunicazioni inviate a quell’indirizzo. Il Comune rimarcava di non aver inserito alcuna indicazione con riferimento al proprio indirizzo elettronico in quanto al momento del deposito dell’appello non era stato ancora approvato il nuovo codice di procedura amministrativa e successivamente alla sua entrata in vigore non aveva depositato alcun atto con il quale poter adempiere a tale onere, per cui il Comune chiedeva di essere rimesso in termini con conseguente applicazione dell’art. 37 c.p.a. che prevede questa possibilità “in presenza di oggettive ragioni di incertezza su questioni di diritto”. Il Collegio ha riconosciuto l’esistenza di un errore scusabile del Comune perché questi era effettivamente in una condizione di incertezza giuridica dovuta alla non ancora approvazione, ratione temporis, del nuovo codice procedurale. Inoltre a conferma della tesi del ricorrente va richiamata anche la norma di cui all’articolo 2, comma 6, dell’allegato 2 al codice del processo amministrativo, secondo cui «la segreteria effettua le comunicazioni alle parti ai sensi dell’articolo 136, comma 1, del codice o, altrimenti, nelle forme di cui all’articolo 45 delle disposizioni per l’attuazione del codice di procedura civile», per cui si riconosce implicitamente che nel caso in cui la notifica a mezzo PEC non sia possibile l’ufficio giudiziario deve ricorrere ad altri strumenti più idonei. Il Consiglio di Stato ha, pertanto, accolto l’opposizione del Comune, e disponendo il rinnovo della comunicazione del decreto presidenziale di perenzione. La rimessione in termini è altresì trattata da questa rivista in: RIMESSIONE IN TERMINI: È APPLICABILE ALLA NOTIFICAZIONE DEL DECRETO INGIUNTIVO la nuova collocazione nell’art.153 cpc conferisce all’istituto carattere generale OPPOSIZIONE STATO PASSIVO: SI APPLICA LA RIMESSIONE EX ART.153 CPC spetta al collegio verificare la fondatezza dell’impedimento addotto al fine della rimessione in termini...

ESECUZIONE FORZATA: per la proroga termine per il deposito della certificazione notarile occorrono giusti motivi

Ven, 21/03/2014 - 10:29
Il termine per il deposito della certificazione notarile può essere prorogato solo qualora sussistano giusti motivi, nei quali – sulla base dei concetti elaborati dalla giurisprudenza – possono rientrare i fatti, indipendenti dalla volontà dei creditori, che rendano impossibile o particolarmente gravosa la produzione dei documenti nei termini previsti dalla norma, ovvero quelli legati alla richiesta proveniente dal debitore, fondata sulla circostanza che siano in corso pagamenti non ancora esaustivi o che pendano trattative di bonario componimento.  Così si è pronunziato il Tribunale di Napoli nella persona del Giudice dell’Esecuzione dr. Salvatore Di Lonardo, che ha rigettato la richiesta di proroga del termine per il deposito della certificazione notarile avanzata dal creditore procedente, ritenendo che nella stessa non erano ravvisabili, né prospettati dalla parte, i presupposti per la sua concessione.  L’ordinanza in esame è coerente con quanto previsto dall’art. 567 cpc, che dispone la prorogabilità del termine di ulteriori centoventi giorni per il deposito dell’estratto del catasto, nonché dei certificati delle iscrizioni e trascrizioni relative all’immobile pignorato ovvero di un certificato notarile attestante le risultanze delle visure catastali e dei registri immobiliari “per giusti motivi”. È sorta, subito dopo la riforma legislativa che ha modificato la citata norma, la necessità di individuare le condizioni in presenza delle quali la proroga possa essere accordata e di stabilire la corretta interpretazione della locuzione “giusti motivi”. Si è ritenuto che rientrano tra i giusti motivi i ritardi comprovati degli uffici che hanno il compito di rilasciare i documenti, la difficoltà di produrre un numero elevato di documenti, la rinunzia del creditore procedente che impedisce al creditore intervenuto munito di titolo di provvedere tempestivamente al deposito e, comunque, più in generale, i fatti indipendenti dalla volontà dei creditori, che rendano impossibile o particolarmente gravosa la produzione dei documenti nei previsti dalla norma. La richiesta di proroga deve essere motivata e corroborata dalla documentazione volta a dimostrare che il mancato tempestivo deposito dei documenti è dipeso da un fatto non imputabile ovvero dal ritardo della pubblica amministrazione e deve essere presentata prima della sua scadenza, in quanto, decorso il termine, si produce automaticamente l’inefficacia del pignoramento, che non può essere sanata da una richiesta di proroga successiva, tenuto conto che il provvedimento di estinzione ha solo una funzione dichiarativa....

CONCORDATO PREVENTIVO: lo scioglimento dei contratti pendenti è ammesso anche se la domanda è in bianco

Ven, 21/03/2014 - 09:45
La disciplina dello scioglimento e della sospensione dei contratti in corso di esecuzione prevista dall'art. 169 bis L.F. deve ritenersi applicabile anche nell'ambito di un procedimento di concordato preventivo “in bianco”. Lo scioglimento dei rapporti contrattuali pendenti è ammissibile anche con riferimento ai contratti di anticipo fatture o su ricevute bancarie, laddove l'istituto di credito abbia già dato integrale esecuzione alla propria prestazione. La natura delle obbligazioni e l'esistenza di un patto di compensazione non incidono infatti sull'assoggettabilità dei singoli contratti al disposto dell'art. 169 bis L.F., bensì soltanto sulla sorte delle obbligazioni non adempiute al momento dello scioglimento. Ai fini dello scioglimento dei contratti, il richiedente, una volta ottenuta l'autorizzazione da parte del giudice, è però tenuto a manifestare alla controparte contrattuale la volontà di sciogliersi dal vincolo negoziale. Ciò può avvenire, anche implicitamente, attraverso la comunicazione del provvedimento autorizzativo emesso in accoglimento della richiesta. Gli effetti del provvedimento autorizzatorio di scioglimento dei rapporti contrattuali pendenti devono essere pertanto fatti decorrere dalla predetta comunicazione alle parti contro-interessate, fatti salvi gli effetti della sospensione. Sono questi i principi sanciti dalla Corte di Appello di Genova chiamata a decidere sul reclamo proposto da alcune banche contro il provvedimento con cui era stata accordata l'autorizzazione allo scioglimento dei contratti bancari in corso, previa sospensione degli stessi, su richiesta di una società a responsabilità limitata che aveva presentato ai sensi dell'art. 161, comma 6, L.F., una domanda di concordato preventivo “in bianco”, al fine di poter destinare gli importi delle rimesse al finanziamento della prosecuzione dell'attività di impresa. Con il reclamo gli istituti di credito hanno dunque contestato l'ammissibilità dello scioglimento dei contratti in corso nell'ipotesi di concordato preventivo “in bianco” con particolare riferimento a quei contratti nei quali una delle parti aveva già dato esecuzione alla propria prestazione. Le banche hanno altresì censurato il provvedimento impugnato nella parte in cui aveva ritenuto sottratti allo scioglimento solamente i contratti espressamente esclusi dall'art. 169 bis L.F., vale a dire i contratti di lavoro subordinato ed i contratti ex 72, comma 8, L.F. (contratto preliminare di vendita trascritto ai sensi dell’articolo 2645-bis del cc avente ad oggetto un immobile ad uso abitativo), ex art. 72-ter L.F. (contratti di finanziamento destinati a uno specifico affare ex art. 2447-bis, comma 1, lett. b), cc) ed ex art. 80, comma 1, L.F. (contratto di locazione di beni immobili). Gli istituti di crediti si dolevano inoltre del fatto che la decisione impugnata non teneva conto né dell'operatività della cessione dei crediti nell'ambito dei rapporti di anticipazione bancaria né dell'operatività del patto di compensazione stipulato tra banca e cliente dal quale derivi il diritto ad incamerare le somma riscosse a titolo di anticipazione. La Corte di Appello di Genova non ha tuttavia ritenuto fondate le eccezione sollevate dagli istituti di credito. Per poter risolvere la questione relativa all'applicabilità della disciplina dello scioglimento dei contratti al concordato preventivo “in bianco”, il Giudice del reclamo ha richiamato proprio il disposto ex art. 169 bis L.F., facendo uso - in via interpretativa - del criterio ermeneutico – letterale. L'art. 169 bis L.F. stabilisce che la domanda di autorizzazione allo scioglimento dei contratti in corso di esecuzione può essere proposta ai sensi dell'art. 169 bis L.F. nel ricorso ex art. 161 L.F. . La Corte di Appello ha dunque osservato che l'art. 169 bis L.F. non fa alcun tipo di specificazione in ordine al tipo di concordato preventivo “ordinario” o “in bianco” al fine di stabilire se sia o meno applicabile la disciplina dello allo scioglimento dei contratti in corso. Il dato letterale del disposto ex art. 169 bis L.F. appare in questo senso insuperabile. A sostegno delle proprie conclusioni, il Giudice adito ha inoltre evidenziato che l'art. 161 L.F. non prevede affatto due forme di concordato preventivo, in quanto la norma ne disciplina un solo tipo caratterizzato da univoci presupposti, requisiti e finalità. L'art. 161, comma 6, L.F. si limita difatti a consentire un differimento nella presentazione della proposta, del piano e dei documenti, tanto è vero che dopo lo scioglimento della riserva il concordato preventivo “in bianco” non si differenzia dal concordato preventivo “ordinario”. La Corte di Appello ha pertanto ritenuto incongruo precludere l'accesso alla facoltà disciplinata dall'art. 169 bis L.F. in ragione di una diversa modalità di presentazione del ricorso ex art. 161 L.F. Un differente trattamento tra le situazioni in oggetto non potrebbe essere neppure giustificato dal fatto che la procedura introdotta con la richiesta di concordato preventivo “ordinario” risulterebbe caratterizzata da una maggiore stabilità e da una maggiore garanzia di buona riuscita, in quanto detta domanda può essere anch'essa oggetto di caducazione per effetto di revoca, modifica, mancata approvazione o rigetto. La Corte di Appello di Genova è successivamente passata ad esaminare la questione relativa all'applicabilità dell'istituto dello scioglimento ex art. 169 bis L.F. ai rapporti negoziali nei quali una delle parti ha eseguito la propria prestazione. Il Giudice del reclamo ha innanzitutto evidenziato che l'art. 169 bis L.F. disciplina in modo autonomo lo scioglimento dei contratti in corso nell'ambito del concordato preventivo. Ne discende pertanto che la disciplina dello scioglimento trova applicazione per tutte le categorie di contratti, ad eccezione di quelli espressamente esclusi dall'art. 169 bis L.F.. Non può difatti ritenersi ammissibile la tesi secondo cui l'art. 169 bis L.F. può essere esteso soltanto ai contratti con prestazioni ineseguite da entrambe le parti. La disciplina del concordato preventivo non è difatti soggetta alle regole previste dall'art. 72 L.F. in tema di fallimento, così come invece sostenuto ed invocato dagli istituti di credito, in quanto non è stato fatto alcuno specifico espresso richiamo a detta disposizione da parte del nostro legislatore. A ciò si aggiunge il fatto che sussistono profonde differenze testuali tra l'art. 169 bis L.F. e l'art. 72 L.F. L'art. 72 L.F. fa infatti riferimento ai contratti ancora ineseguiti o non compiutamente eseguiti da entrambe le parti, mentre l'art. 169 bis L.F. si riferisce ai contratti in corso di esecuzione. Circostanza di fatto che comprende anche l'ipotesi in cui una delle parti abbia dato esecuzione alla propria prestazione. La Corte di Appello di Genova ha infine respinto l'idea che possano dirsi esclusi dalla disciplina dello scioglimento dei contratti pendenti anche i contratti unilaterali per effetto del richiamo operato dall'art. 169 L.F. all'art. 55 L.F. avente ad oggetto gli effetti del fallimento sui debiti pecuniari e all'art. 59 L.F. riguardante i crediti non pecuniari. La mancanza dell'art. 72 L.F. tra le norme richiamate dall'art. 169 L.F. costituisce in definitiva motivo per escludere l'applicabilità di detta disposizione alla disciplina del concordato preventivo. Alla luce dei principi sopra richiamati, la Corte d'appello di Genova è quindi giunta ad affrontare il tema della sospensione e dello scioglimento dei contratti di affidamento bancario in corso, ai sensi art. 169 L.F. con particolare riferimento alla cessione di credito, allo sconto di cambiali e alle anticipazioni bancarie su fatture o su ricevute bancarie. Il Collegio ha evidenziato - nel merito - che la sorte dei singoli crediti collegati ai contratti di cui viene chiesta la sospensione o lo scioglimento deve essere valutata nell'ambito della procedura di concordato, ma non ha alcuna correlazione con l'applicazione dell'art. 169 bis L.F.. La natura delle obbligazioni e l'esistenza di un patto di compensazione non incidono infatti sull'assoggettabilità dei singoli contratti bancari al disposto ex art. 169 bis L.F., ma soltanto sulla sorte delle obbligazioni non adempiute al momento dello scioglimento. La Corte di Appello ha pertanto confermato che l'operatività dell'art. 169 bis L.F. deve essere ammessa per le anticipazioni bancarie su fatture o su ricevute bancarie o su presentazione di un portafoglio di ordini, mentre è esclusa la cessione di credito già perfezionatesi con la notifica al debitore. dello sconto di cambiali in cui la girata si sia realizzata o dello sconto di tratte documentate. Ai fini dello scioglimento dei contratti, la Corte di Appello di Genova ha però osservato che il ricorrente, una volta ottenuta l'autorizzazione del giudice, debba manifestare alla controparte contrattuale la volontà di sciogliersi dal vincolo negoziale anche implicitamente attraverso la comunicazione del provvedimento autorizzativo emesso in accoglimento della richiesta, fatti salvi gli effetti della sospensione. Gli effetti dello scioglimento dei contratti non costituisce difatti un effetto diretto del provvedimento autorizzatorio. La sospensione, invece, svolge una funzione strumentale, autonoma ed indipendente, stante la sua natura cautelare in grado di congelare gli effetti del rapporto contrattuale in attesa che venga presa la decisione sullo scioglimento. La Corte di Appello di Genova ha pertanto confermato lo scioglimento dei contratti in corso, facendone però decorrere gli effetti dal momento della comunicazione alle parti contro-interessate, fatti comunque salvi gli effetti della sospensione....

AMMISSIONE AL PASSIVO - DECRETO INGIUNTIVO – MANCANZA ESECUTIVITÀ – INOPPONIBILITÀ CURATORE

Gio, 20/03/2014 - 15:46
Il decreto ingiuntivo non munito, prima della dichiarazione di fallimento, di decreto di esecutorietà ex articolo 647 del cpc non è passato in cosa giudicata formale e sostanziale, né può più acquisire tale valore con un successivo decreto di esecutorietà per mancata opposizione, poiché, intervenuto il fallimento, ogni credito, secondo quanto prescrive l'articolo 52 della legge fallimentare, deve essere accertato nel concorso dei creditori, secondo le regole stabilite dagli articoli 92 e seguenti della legge fallimentare, in sede di accertamento del passivo. È questo il principio enunciato dalla Corte di Cassazione, sezione prima, con la sentenza n.1650 del 27/01/2014, chiamata a pronunciarsi sull’opponibilità alla curatela fallimentare del decreto ingiuntivo notificato e non opposto prima del fallimento del debitore, al quale però manchi il provvedimento di esecutività ex art.647 cpc. Nel caso di specie, una banca otteneva decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo, in seguito al quale iscriveva ipoteca legale e dava inizio all’esecuzione forzata. Successivamente dichiarato il fallimento della debitrice, la stessa banca proponeva domanda di ammissione allo stato passivo del credito con privilegio ipotecario, depositando il provvedimento monitorio, non opposto dalla debitrice. Ebbene il Tribunale, adito ai sensi dell'art. 98 legge fallimentare, respingeva l'opposizione, deducendo la mancata prova della definitività del decreto ingiuntivo. Contro tale provvedimento la banca proponeva ricorso in Cassazione lamentando che il tribunale errava nell'aderire alla tesi della inopponibilità al fallimento del decreto ingiuntivo non dichiarato definitivo prima della sentenza di fallimento, pur quando il decreto di esecutività esisteva, anche se emesso dopo la sentenza dichiarativa. I Giudici di legittimità, tuttavia, hanno confermato la decisione del Tribunale, sulla base del consolidato principio secondo il quale il decreto ingiuntivo, non dichiarato esecutivo ai sensi dell'art. 647 c.p.c., non ha efficacia di giudicato formale e sostanziale ed è inopponibile alla procedura fallimentare, determinando la sopravvenuta dichiarazione di fallimento del debitore l'inopponibilità alla massa dei creditori concorsuali del decreto ingiuntivo in precedenza emesso, se, all'epoca del fallimento, non sia intervenuta ancora la dichiarazione di esecutorietà di cui alla norma menzionata. Pertanto, il creditore opposto deve partecipare al concorso con gli altri creditori, previa riproposizione della domanda di ammissione al passivo fallimentare, con i conseguenti oneri probatori. Alla luce di tali considerazione la Corte ha rigettato il ricorso condannando la ricorrente al rimborso delle spese di lite. COMMENTO Il creditore che vuole conseguire l’ammissione al passivo in virtù di un decreto ingiuntivo non opposto, deve provare la definitività del provvedimento e cioè il passaggio in giudicato. Il modo più facile e logico è rappresentato della produzione del certificato di non prodotta opposizione al fine di superare supera ogni possibile contestazione....

Notaio: l’attività professionale si estende anche all’attività di consulenza

Gio, 20/03/2014 - 10:25
L'omissione informativa ascrivibile al notaio nei confronti delle parti al momento della stipula del rogito è causa di danno economico, che andrà rapportato alle potenziali dirette conseguenze. È responsabile per violazione dell’art. 1176 c.c., comma 2, il notaio che al momento della compilazione di un atto si limiti a registrare la volontà delle parti senza compiere tutte le attività  necessarie a far conseguire alle parti un regime fiscale più favorevole. È questo il principio espresso dal Tribunale di Milano, quinta sezione civile, con sentenza depositata in data 25/09/2013. Nel caso di specie, l’attore aveva acquistato, per mezzo del notaio convenuto, due terreni, chiedendo di usufruire delle agevolazioni fiscali quale coltivatore diretto ovvero, in via subordinata, quale imprenditore agricolo, riservandosi di conseguire la relativa qualifica e di produrre per tempo la documentazione necessaria. In giudizio, l’attore deduceva che il notaio, all’atto della stipula, si era spontaneamente assunto l’impegno di presentare il relativo certificato all’Ispettorato Provinciale Agrario, senza poi adempiere a tale incombenza e nel contempo lamentava l’omessa informativa da parte del professionista dei limiti operativi dei benefici fiscali richiesti, consistenti nella presentazione della documentazione necessaria nel termine di anni tre dalla stipula dell’atto e nell’onere di provvedere alla coltivazione diretta del fondo per anni cinque, adempimenti che, se conosciuti, avrebbero di certo indotto l’attore a non stipulare l’atto. Avendo l’attore ricevuto gli avvisi di liquidazione dall’Agenzia delle Entrate a titolo di maggiori imposte di registro ed ipotecaria, oltre a ulteriori sanzioni ed interessi, stante il pronunciato diniego da parte dell’Ente dei benefici, lo stesso conveniva in giudizio il notaio rogante  al fine di ottenere la condanna del professionista al risarcimento dei danni patiti, pervio accertamento della responsabilità del medesimo per inesatto adempimento dell’obbligazione contrattuale. Si costituiva in giudizio il notaio non contestando la sussistenza del rapporto contrattuale ed eccependo sia di non essersi assunto alcun onere in merito alle procedure amministrative successive alla redazione dell'atto sia di aver fornito al cliente una completa informativa in merito alla operatività dei benefici fiscali richiesti. Il giudice ha ritenuto la domanda fondata, trattandosi di responsabilità per inadempimento contrattuale, l’attore aveva il solo onere di documentare l’esistenza del rapporto contrattuale, confermato, tra l’altro, dallo stesso notaio, ed il fatto dell’inadempimento, mentre sarebbe stato compito del professionista provare in giudizio l’avvenuto esatto adempimento. Alla luce dei fatti allegati e non smentiti, il Tribunale ha ritenuto sussistente, nel caso di specie, la responsabilità del professionista, non potendosi l’attività del notaio esaurire nella mera redazione dell’atto, e non comprendere anche tutte le attività preparatorie e successive necessarie ad assicurare la serietà e certezza degli effetti dell’atto e del risultato pratico perseguito dalle parti. In conclusione, non essendovi stata da parte del professionista un’adeguata attività di consulenza fiscale, lo stesso andrà condannato a risarcire il danno a favore del cliente. COMMENTO Caro è costato ad un notaio l’omessa informativa nei confronti delle parti al momento della stipula del rogito, nella misura di euro 125.716,00, essendosi il professionista limitato solo ed esclusivamente alla mera registrazione delle dichiarazioni dei clienti. Il Tribunale di Milano nella suindicata sentenza, recependo un consolidato orientamento giurisprudenziale in materia, ha ben specificato che l’attività del professionista giammai può ridursi alla sterile registrazione delle dichiarazioni dei contraenti dovendosi estendere a tutte le attività preparatorie e successive, tese ad assicurare il raggiungimento dello scopo pratico perseguito dai contraenti. Tra i compiti incombenti sul professionista andrà, pertanto, ricompresa anche l’attività di consulenza fiscale e tanto al fine di non incorrere in responsabilità per omesso espletamento di indagini diligenti, in conformità a quanto previsto dall’art.1176, II comma cc. Per altri commenti su responsabilità notaio vedi: RESPONSABILITA’ PROFESSIONALE: condannato il notaio che non adempie correttamente al proprio incarico Se nell’adempimento del proprio incarico professionale, il notaio incorre in errore e produce un danno al proprio cliente, deve risarcirlo  Sentenza | Tribunale Ordinario di Milano, Sezione Prima Civile | 15-07-2013   RESPONSABILITÀ NOTAIO: il cliente deve provare il danno subito Il notaio è tenuto ad esercitare la propria professione con il grado di diligenza richiesto dall’art. 1176 c.c., comma 2  Sentenza | Tribunale di Treviso, Dott. Paolo Nasini | 28-06-2013  NOTAIO ROGANTE: RESPONSABILITÀ NELL’ESECUZIONE DEL CONTRATTO DI PRESTAZIONE PROFESSIONALE L’opera del notaio deve estendersi a tutte quelle attività dirette ad assicurare la serietà e certezza dell'atto giuridico posto in essere tra le quali è compresa la attività di consulenza in relazione allo scopo tipico dell'atto.  Sentenza | Cassazione civile, sezione terza | 27-11-2012 | n.20991 ...

ESECUZIONE FORZATA MINACCIATA IN FORZA DI DECRETO INGIUNTIVO DICHIARATO ESECUTIVO PER MANCATA OPPOSIZIONE

Gio, 20/03/2014 - 09:13
In tema di esecuzione forzata minacciata in virtù di un decreto ingiuntivo dichiarato esecutivo per mancata opposizione, la parte intimata può proporre opposizione all’esecuzione ai sensi dell’art. 615 comma 1 cpc se intende dolersi della totale inesistenza della notificazione del decreto ingiuntivo ovvero opposizione tardiva a decreto ingiuntivo allorquando contesta che la notifica sia avvenuta in modo irregolare così da non essere stata messa in condizioni di proporre opposizione a decreto tempestivamente. Così si è pronunziata la Corte di Cassazione, terza sezione civile con la sentenza n.1219 del 22/01/2014, riformando la sentenza di primo grado, che aveva accolto l’opposizione all’esecuzione, sul presupposto che il decreto ingiuntivo, in virtù del quale era stato notificato il precetto, non era stato regolarmente notificato al debitore. Con la decisione in esame, la Corte  ha ribadito il già consolidato principio per cui la parte intimata può proporre opposizione all’esecuzione ovvero opposizione tardiva a decreto ingiuntivo, la cui scelta dipende dalle eccezioni che intende sollevare. Nel caso in cui la parte si duole della totale inesistenza della notificazione del decreto ingiuntivo e, dunque, che l’ingiunzione è divenuta inefficace e che non ha acquistato esecutorietà per mancata opposizione, lo strumento da utilizzare è l’opposizione all’esecuzione ex art. 615 cpc comma 1 da proporsi innanzi al Giudice competente per materia o valore e per territorio a norma dell’art. 27 cpc. Viceversa, nel caso in cui la parte intimata intende dolersi della irregolarità della notifica e, dunque, di non averne avuto conoscenza, così da non essere stata messa in grado di presentare tempestivamente l’opposizione, allora si deve proporre l’opposizione tardiva a decreto ingiuntivo innanzi al Giudice che lo ha emesso nel termine di dieci giorni decorrenti dal primo atto di esecuzione....

DERIVATI: la dichiarazione di competenza ed esperienza è prova unica e sufficiente dell’adempimento degli obblighi informativi

Mer, 19/03/2014 - 11:25
In presenza della dichiarazione resa dalla cliente e delle precisazioni scritte circa la rischiosità delle operazioni, la banca non è tenuta all'assolvimento di ulteriori obblighi informativi di cui agli articoli 28 e 29 del Regolamento Consob 11522/1998, in ordine, rispettivamente, al contenuto delle informazioni da richiedere e fornire al cliente e all'astensione dall'effettuazione di operazioni non adeguate. La prescrizione secondo cui i  contratti relativi alla prestazione di servizi di investimento devono essere redatti per iscritto a pena di nullità riguarda solo il contratto-quadro, che disciplina lo svolgimento successivo del rapporto volto alla prestazione del servizio di negoziazione di strumenti finanziari, e non i singoli ordini di investimento o disinvestimento che vengano poi impartiti dal cliente all'intermediario, la cui validità non è soggetta a requisiti di forma. Sono questi i principi che il Tribunale di Trieste, dott. Daniele Venier - aderendo all’orientamento della giurisprudenza di legittimità – ha affermato con la sentenza n. 248, pubblicata il 17 marzo 2014. Nel caso di specie una società aveva concluso un contratto di mutuo per sanare i debiti sorti da originari rapporti di intermediazione finanziaria stipulati per l'acquisto di prodotti "derivati" e il cui saldo negativo era confluito nel conto corrente della società facendo aumentare la sua esposizione debitoria. In sede di opposizione a decreto ingiuntivo, la società e i fideiussori hanno dedotto, con riguardo ai suddetti rapporti, la nullità per assenza del contratto-quadro ex art. 23 T.U.F. e la violazione dell'obbligo di fornire adeguate informazioni al cliente da parte della Banca, con riferimento alla natura e alle caratteristiche dello strumento consigliato e all'adeguatezza o meno dell'operazione, così come prescritto dall’art. 31, II comma del Regolamento Consob n. 11522/1998. Il Tribunale, sul punto, ha respinto la domanda di nullità dei tre contratti aventi a oggetto operazioni in strumenti derivati stipulati tra le parti, rilevando l'esistenza del contratto quadro allegato dagli stessi opponenti relativo ad operazioni su strumenti derivati il quale, essendo  espressamente qualificato "accordo normativo" e contenendo la disciplina di futuri contratti specifici di interest rate che sarebbero stati tra le parti perfezionati, corrisponde, non solo  per denominazione ma anche per contenuto, proprio al contratto previsto dall'art.23 T.U.F. Tanto in completa adesione all’orientamento della giurisprudenza di legittimità che aveva già affermato il principio secondo cui l’obbligo previsto dall’art. 23, I comma, T.U.F., di redigere per iscritto a pena di nullità gli atti relativi alla prestazione dei servizi di investimento deve riguardare solo il contratto-quandro che disciplina i termini di svolgimento del rapporto tra intermediario e cliente e non anche quelli che dispongono i successivi singoli ordini di investimento. Neppure la domanda di risoluzione dei contratti swap per inadempimento dei plurimi obblighi di informazione imposti dal T.U.F., è stata ritenuta accoglibile.  In particolare, l’inadempimento contestato dagli opponenti atteneva alla mancata assunzione di adeguate informazioni sulla natura dello strumento finanziario consigliato e sul reale profilo di rischio del cliente, nonché all'omessa comunicazione della natura del titolo, dell'adeguatezza dell'operazione e alla mancata adozione di strumenti idonei a informare delle perdite in atto. Il Tribunale ha disatteso anche tale domanda sulla base del contenuto della dichiarazione resa dal legale rappresentante di essere operatore qualificato e di possedere una specifica competenza ed esperienza in materia di contratti in strumenti finanziari, con particolare riferimento ai contratti menzionati nel detto  accordo normativo. Il Giudice ha espressamente statuito che la Banca, quindi, in conseguenza della dichiarazione resa dal cliente, non fosse tenuta all'assolvimento degli ulteriori obblighi informativi dedotti dall'opponente a fondamento della domanda di risoluzione. Tale statuizione è stata assunta confermando l’orientamento precedentemente affermato dalla Corte di Cassazione che ha precisato che la semplice dichiarazione, sottoscritta dal legale rappresentante, che la società disponga della competenza ed esperienza richieste in materia di operazioni in valori mobiliari, esonera l'intermediario stesso dall'obbligo di ulteriori verifiche sul punto e costituisce argomento di prova che il giudice può porre a base della propria decisione, anche come unica e sufficiente fonte di prova in difetto di ulteriori riscontri.  In altre parole, la dichiarazione del legale rappresentante opera -  ad avviso della cassazione ma anche del Giudice con la sentenza in commento che ha integralmente recepito il principio affermato - un’inversione dell’onere della prova, tale per cui la dichiarazione può costituire “argomento di prova che il giudice – nell’esercizio del suo discrezionale potere di valutazione del materiale probatorio a propria disposizione ed apprezzando il complessivo comportamento extraprocessuale e processuale delle parti (art. 116 c.p.c.) – può porre a base della propria decisione anche come unica e sufficiente fonte di prova, in assenza di ulteriori riscontri”. La giurisprudenza ricostruisce, quindi,  l’efficacia della dichiarazione ex art. 31 sostanzialmente nei termini di una presunzione di esistenza della competenza ed esperienza che potrebbe essere superata solo dalla allegazione e prova di circostanze specifiche che dimostrino il contrario. Si è, quindi, ad oggi raggiunto un punto fermo con la chiara presa di posizione della giurisprudenza, anche di merito, a favore dell’orientamento secondo cui l’intermediario non è tenuto ad effettuare un controllo quanto alla veridicità della dichiarazione, non consentendo il tenore letterale della norma diversa interpretazione ed essendo viceversa necessario ricondurre alla responsabilità di chi amministra e rappresenta la società gli effetti della dichiarazione. Si segnala che sono pubblicate altre decisioni relative alle operazioni in strumenti finanziari: DERIVATI: REQUISITI DI VALIDITÀ DELLA DICHIARAZIONE DI OPERATORE QUALIFICATO Grava sul cliente l’onere di dimostrare la non conformità. Sentenza | Tribunale di Firenze, Pres.dott. Fiorenzo Zazzeri, G.Est. dott. Ludovico Delle Vergini | 29-11-2013 | n.3842 OPERATORE QUALIFICATO: LE CONOSCENZE TECNICHE E LA CAPACITÀ DI VALUTARE I RISCHI SONO LE STESSE DI QUELLE DELLA BANCA l’operatore qualificato non può contestare un’operazione effettuata solo se l’esito si riveli o rischi di rivelarsi troppo oneroso. Sentenza | Tribunale di Sassari, dott. Silvio Lampus | 13-05-2013 | n.765 DICHIARAZIONE DI OPERATORE QUALIFICATO: ERRORE PERSONALE IRRILEVANTE! L’assenza di competenza ed esperienza va provata dalla società che ha sottoscritto la dichiarazione di operatore qualificato ex art. 31 del Regolamento Consob n. 11522/98. Sentenza | Corte d’Appello di Milano, sezione prima | 04-03-2013 | n.944 CONTRATTI DERIVATI – OBBLIGO INFORMAZIONE – INDICAZIONE COSTI DI PRODUZIONE DEL DERIVATO Nel caso di commissioni implicite nei contratti derivati l’ente ha diritto alla ripetizione ex art.2033 cc in mancanza dell’obbligo di informazione e trasparenza. Sentenza | Tribunale di Pescara | 11-10-2012 | n.1241...

USURA BANCARIA: la sommatoria fra il tasso debitore e quello moratorio è un errore di carattere logico oltre che giuridico

Mer, 19/03/2014 - 08:48
Interessi corrispettivi ed interessi moratori, pattuiti come tassi diversi e alternativi, applicabili in ipotesi distinte e alternative non possono essere cumulativamente valutati ai fini del raffronto con il tasso soglia ex l.108/1996.  Sostenere che il tasso soglia ex L.108/1996 sarebbe superato per effetto della sommatoria fra il tasso debitore del mutuo e quello moratorio è un errore di carattere logico oltre che giuridico. Pur in ipotesi di superamento della soglia antiusura per effetto della sommatoria dei due tassi, si determinerebbe - al più - che non sono dovuti gli interessi moratori, e non, tout court, che non siano dovuti anche gli interessi corrispettivi che, in ogni caso, siano stati pattuiti entro la soglia. Cosi si è espresso il Tribunale di Trani, in persona del Giudice Dott.ssa Francesca Pastore, il quale, con una decisione logicamente argomentata, ha rigettato la domanda di un mutuatario che chiedeva l’accertamento della usurarietà di un contratto di mutuo per effetto di una errata lettura delle clausole contrattuali. In particolare il Tribunale ha ben chiarito principi fondamentali in materia di usura bancaria, segnalando correttamente che la nota sentenza della corte di Cassazione (n.350/2013), invocata dalla parte ricorrente a fondamento della tesi della additività dei due tassi, ha solo ed esclusivamente ribadito un principio interpretativo da tempo affermato dalla giurisprudenza di legittimità (si vedano, ex multis, Cass.n. 5286/2000, Cass.n. 5324/2003, cass,n,16992/2007), vale a dire che la regola ex art. 1815 c.c. si applica alla pattuizione di interessi “a qualunque titolo” dovuti, cioè a quelli corrispettivi come a quelli moratori. A ben vedere, infatti, la Corte di Cassazione non ha mai affermato - come sostenuto da molte associazioni dei consumatori all’indomani della pubblicazione della sent. n.350/2013 – che i tassi corrispettivi e moratori vadano sempre sommati ai fini della verifica di usurarietà del prestito, ma si è limitata semplicemente a stabilire un criterio di oggettiva individuazione della natura usuraria degli interessi – anche moratori - e una corrispondente ferma e chiara sanzione per la parte che ne profitti. Nella pronuncia ora in commento, il Tribunale ha stabilito una regula iuris di fondamentale importanza per regolare fattispecie di tal genere, e precisamente che: qualora gli interessi corrispettivi siano stati pattuiti nei limiti della soglia di usura, questi sono sempre e comunque dovuti, a prescindere dall’eventuale usurarietà determinantesi per effetto dell’applicazione dei moratori, ribadendo che tra le due tipologie di interessi vi è di fatto una piena autonomia. I principi espressi dal Tribunale di Trani possono essere così sintetizzati: 1) non si sommano gli interessi corrispettivi e gli interessi moratori ai fini della valutazione di usurarietà di un contratto di finanziamento; 2) gli interessi corrispettivi pattuiti nei limiti del tasso soglia sono sempre dovuti, anche se gli interessi moratori superano il tasso soglia. IL COMMENTO Si consolida l’orientamento secondo il quale gli interessi corrispettivi e quelli moratori sono suscettibili di autonoma valutazione e non vanno, sic et simpliciter, sommati. Dopo la recente ordinanza del Tribunale di Milano, sesta sezione, dott.ssa Laura Cosentini, del 28-01-2014, e l’ordinanza del Tribunale di Napoli, quinta sezione civile, dott. Enrico Ardituro del 28-01-2014, anche il Tribunale di Trani, esprime con fermezza e densità di argomentazione principi giuridici che, difatti, indeboliscono la tesi di coloro i quali hanno intravisto nella sentenza 350 la “pietra angolare” della additività dei due tassi d’interesse, facendo proliferare il contenzioso con le banche a dismisura. La decisione di fatto pone fine al tema dell’usurarietà dei mutui fondato sull’erroneo teorema “sommatoria dei tassi moratori con quelli corrispettivi” bollato oggi come errore di carattere logico oltre che giuridico Nel caso di specie, è costata cara al ricorrente la promozione del presente giudizio, irretito da false aspettative e condannato al pagamento delle spese processuali di euro 10.000,00, per aver promosso una domanda totalmente infondata  Sostenere in giudizio una lettura diversa, invocando – senza un reale appiglio logico giuridico -  la “rivoluzionarietà” della sentenza n.350 può risultare, pertanto, rischioso. Come già sopra argomentato, la Cassazione si è limitata a ribadire la necessità di includere anche gli interessi moratori tra gli oneri rilevanti ai fini dell’usura. Invero, anche tale affermazione non è esente da critiche, se si analizzano in maniera più dettagliata,le diversità di natura e funzioni degli interessi di mora rispetto agli interessi convenzionalmente pattuiti. Sul punto, recenti pronunce dell’ABF, successive all’ormai nota sent. 350/13, hanno del tutto e categoricamente escluso gli interessi moratori dagli oneri rilevanti ai fini dell’usura ritenendo, al massimo, che la loro eccessiva onerosità, riscontrabile in caso di inadempimento, possa essere riequilibrata attraverso l’ordinario rimedio ex art.1384 cc (equiparando in tal modo gli interessi moratori ad una penale per inadempimento). La tesi dell’ABF si basa, per l’appunto, sull’analisi della diversità di funzione tra gli interessi corrispettivi e moratori (chiaramente espressa anche dalla giurisprudenza), ma soprattutto sulla considerazione che sono rilevanti ai fini dell’usura solo gli oneri determinanti nella concessione del credito (escludendo cosi gli interessi moratori  - che in tal senso non hanno alcun ruolo -  dipendendo la loro applicazione da un fatto addebitabile unicamente al debitore inadempiente). Sussistono, dunque, dei margini per ritenere che gli interessi moratori non vadano considerati ai fini dell’usurarietà di un prestito, anche e soprattutto in considerazione delle difficoltà tecnico-giuridiche nel dover raffrontare due grandezze tra loro disomogenee (basti considerare che nel calcolo del TEGM non sono ricompresi i tassi di mora). In conclusione, al di là della innovativa interpretazione qui prospettata, anche semplicemente fermarsi a riflettere sul dato emergente dalla pronuncia del Tribunale di Trani e delle altre ordinanze dei giudici di merito – sopra citate – può condurre ad un’oculata valutazione del “rischio”, per il mutuatario, di agire giudizialmente sostenendo la tesi dell’additività di tassi corrispettivi e moratori ai fini della valutazione di usurarietà di un contratto di finanziamento. Un rapido sguardo al regime delle spese, applicato nella pronuncia in commento, potrà sortire – intuitivamente – un forte effetto “deterrente” a sostenere una superficiale e non specialistica interpretazione della normativa antiusura. Un consiglio a tutti coloro che intendono procedere giudizialmente per l’accertamento dei tassi usurari? Siate cauti e valutate la posizione con attenzione. Acquisite dal Vostro avvocato un parere pro veritate chiedendo di valutare la correttezza scientifica degli argomenti trattati in questo articolo in quanto non è difficile che vi possiate venire a trovare nella incresciosa situazione di poter essere condannati al pagamento delle spese processuali oltre il compenso professionale dei consulenti e degli avvocati....

Rivista di informazione giuridica per avvocati e studi legali: expartecreditoris.it

Mar, 04/02/2014 - 23:34
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