PRELIMINARE: NECESSARIA L'INTESA SUGLI ELEMENTI COSTITUTIVI DELL'ACCORDO
Considerato che il contratto preliminare di una compravendita deve necessariamente rivestire la forma scritta ad substantiam ai sensi dell'art. 1351 cc, in mancanza di un atto scritto contenente una vera e propria accettazione, la mera ricezione di una somma consegnata a titolo di caparra non pare sufficiente a determinare la stipulazione del contratto preliminare ma solo a dimostrare l'avvenuta percezione della somma medesima. L'intesa su alcuni punti del contratto non esaurisce la fase delle trattative, perché al fine di perfezionare il vincolo contrattuale è necessario che tra le parti sia raggiunta l'intesa sugli elementi costitutivi sia principali sia secondari dell'accordo. Ai fini della stipulazione di un contratto di compravendita immobiliare anche se solo preliminare - è dunque indispensabile l'esatta individuazione del suo oggetto. In mancanza di un contratto concluso ed in ragione della conseguente inesistenza di un vincolo obbligatorio, i doveri di correttezza, buona fede e diligenza che il venditore deve osservare nel corso delle trattative debbono ritenersi estesi anche agli obblighi collaterali di protezione, informazione e collaborazione nei confronti dell'acquirente con particolare riferimento alle caratteristiche del bene oggetto della compravendita, dovendo essere garantita la corretta formazione della volontà contrattuale. Sono questi i principi sapientemente illustrati dal Tribunale di Perugia chiamato a pronunciarsi su di una complessa controversia avente ad oggetto la mancata stipulazione di un contratto preliminare di compravendita immobiliare. Il caso ha visto il proprietario di un immobile (parte venditrice) citare in giudizio avanti al Giudice di Pace di Perugia la convenuta (parte proponente) per ivi vederla condannata al risarcimento dei danni derivanti dalla condotta illegittima da quest'ultima tenuta nel corso dello svolgimento delle trattative svolte nell'ambito di una operazione di compravendita immobiliare. La parte venditrice si doleva infatti che la proponente aveva presentato una offerta per l'acquisto di un immobile accompagnata da un assegno consegnato in garanzia a titolo di caparra, ma successivamente aveva sollevato una serie di contestazioni in merito all'operazione. La convenuta aveva eccepito che l'immobile era in leasing e non in proprietà, era gravata da debiti condominiali mai rappresentati ed aveva una differente destinazione urbanistica. Nonostante i chiarimenti forniti dal venditore, la parte proponente aveva pertanto manifestato la propria volontà di chiudere la trattativa, Il proprietario concludeva pertanto chiedendo il riconoscimento del diritto al risarcimento dei danni patiti nonché il diritto a trattenere la somma consegnata a titolo di caparra. La convenuta si difendeva eccependo che, durante le trattative, la parte venditrice le aveva comunicato che l'unità immobiliare aveva destinazione d'uso direzionale solo dopo aver accettato la proposta di acquisto relativa all'immobile ad uso negozio. Solamente in detta occasione, il venditore aveva altresì informato la controparte della necessità di subentrare in un contratto di leasing, al fine di definire l'acquisto dell'immobile. La parte proponente contestava altresì che il venditore l'aveva dapprima invitata a stipulare il contratto e successivamente le aveva inviato la bozza di un contratto preliminare non concordato che la convenuta aveva tuttavia rifiutato. La proponente eccepiva inoltre che nella bozza del preliminare l'immobile aveva nuovamente destinazione commerciale, mentre erano frattanto emersi anche rilevanti debiti condominiali mai dichiarati, donde aveva dichiarato chiusa la trattativa. La convenuta non solo evidenziava che la condotta tenuta dal venditore era stata caratterizzata da malafede precontrattuale con riferimento alla violazione del dovere di informazione (mancata comunicazione dei debiti condominiali e dei problemi di infiltrazione d'acqua all'interno dell'immobile), ma contestava altresì il diritto vantato da controparte a trattenere la caparra e a richiedere il risarcimento dei danni. La parte proponente chiedeva infine in via riconvenzionale e previa rimessione della causa al Tribunale per competenza per valore il trasferimento coattivo dell'immobile previa riduzione del prezzo in ragione dei costi da sostenere per il cambiamento della destinazione d'uso e la mancanza delle qualità promesse dell'unità immobiliare oltre al risarcimento dei danni. La causa veniva riassunta avanti al Tribunale di Perugia dalla proponente, la quale chiese la condanna del venditore al risarcimento dei danni ed all'esecuzione in forma specifica del contratto preliminare ad un prezzo comunque inferiore rispetto a quello originariamente concordato. Il venditore si costituiva in giudizio e si difendeva, chiedendo da un lato il rigetto delle pretese avanzate da controparte e dall'altro la cancellazione della trascrizione della domanda giudiziale formulata dalla parte proponente. Nell'esaminare la complessa vicenda sopra descritta, il Tribunale di Perugia si è innanzitutto - concentrato sul quesito riguardante la domanda riconvenzionale di esecuzione in forma specifica del contratto preliminare di vendita formulata dalla proponente. Alla luce degli elementi di fatto e di diritto accertati, il Giudice ha tuttavia escluso che le parti avessero effettivamente stipulato un preliminare di vendita....
REVOCATORIA FALLIMENTARE: i termini ex art. 69 bis lf sono di decadenza e non di prescrizione
Il termine triennale fissato dallart. 69 bis, primo comma, L.F. è un termine di decadenza sia che si verta in tema di azione revocatoria ordinaria ex art. 66 L.F., sia che si verta in tema di azione revocatoria fallimentare ex artt. 67, 69 e 69 bis, secondo comma, L.F.. I termini ex art. 69 bis L.F. sono termini alternativi che sanciscono una decadenza dallazione revocatoria fallimentare in capo al curatore, che però non può essere rilevata dufficio dal Giudice. Latto necessario e sufficiente per interrompere la decadenza dallazione revocatoria ex art. 69 bis L.F., può essere individuato nel compimento da parte dellattore, entro il termine previsto per lesercizio dellazione, di tutto quanto è in suo potere e ricada sotto la sua responsabilità per iniziare il giudizio. Questi i principi pronunciati dal Tribunale di Napoli, VII Sezione, giudice dott. Angelo Napolitano, nellambito di un giudizio di revocatoria ex art. 67 lf, ove la curatela aveva notificato latto introduttivo oltre il termine di tre anni dalla dichiarazione di fallimento, se pure consegnato allufficiale giudiziario entro detto termine e la convenuta era rimasta contumace. Con la sentenza in esame, il Tribunale di Napoli affronta nuovamente la questione concernente la natura del termine triennale previsto dal primo comma dellart. 69 bis al fine di stabilire se trattasi di un termine di decadenza o di prescrizione. Ciò anche in considerazione dellulteriore profilo, concretamente rilevante nel giudizio in esame, della rilevabilità dufficio della maturazione del termine, considerato che, se il termine triennale fosse un termine di prescrizione, leventuale sua maturazione non sarebbe certamente rilevabile dufficio, dal Giudice, stante la contumacia della convenuta, lunica legittimata ad eccepirla. Se fosse, invece, un termine di decadenza, sarebbe necessario, in primis, verificare se si si verta in materia disponibile o meno dalle parti, al fine di valutare poi se leventuale improponibilità dellazione (art. 2969 c.c.), per essere stata essa esercitata a termine già scaduto, sia rilevabile o meno dufficio dal Giudice. Impostati così i termini della questione, il Giudice muove il ragionamento dallargomento di cui alle espressioni letterali della norma in esame, rilevando come non solo la rubrica del richiamato articolo della legge fallimentare, che parla espressamente di decadenza, (a parte la singolarità del termine triennale come ipotetico termine di prescrizione), ma anche lespressione usata dalla norma convergano, nel senso della natura decadenziale di quel termine: le azioni revocatorie
non possono essere promosse
Si osserva, poi, come non solo i canoni letterale e teleologico dinterpretazione, ma anche la ricostruzione sistematica dellimpatto del richiamato primo comma dellart. 69 bis L.F. sulle condizioni e modalità di esperimento delle azioni revocatorie previste nella sezione terza del capo terzo del titolo secondo della legge fallimentare, inducano a ritenere che ci si trovi davanti ad un termine di decadenza. Il Tribunale, a questo punto, procede ad una analitica disamina degli argomenti e dei motivi sulla base dei quali giunge alla indicata conclusione, muovendo dallesame degli atti revocabili per i quali il quinquennio dal compimento di essi cada prima del decorso del triennio dalla dichiarazione di fallimento e cioè quelli per lo più conclusi prima dellinizio dei periodi cc.dd. sopsetti ex art. 67 L.F.. Trattasi degli atti revocabili ex art. 66 L.F. nel termine prescrizionale dellart. 2903 cc ed, in particolare, vengono illustrate le conseguenze rinvenienti dallincrocio tra il termine e il regime della prescrizione dellazione revocatoria ordinaria nel fallimento ex artt. 66 L.F. e 2903 c.c. e detto termine triennale se questultimo fosse, in ipotesi, qualificato come prescrizionale. In questi casi si osserva - i due termini non assolvono alla medesima funzione: lazione del curatore è ancora promuovibile in quanto non ancora spirato il termine massimo per il suo esercizio; tuttavia lavvenuto decorso del termine quinquennale di prescrizione ex artt. 66 L.F. e 2903 c.c. espone il curatore al rischio che il convenuto, costituendosi tempestivamente, eccepisca la prescrizione estintiva ed eviti che il Giudice si pronunci sul merito della fondatezza dellazione revocatoria ordinaria. Si rileva, pertanto, che in tali ipotesi, se si qualificasse come prescrizionale (anche) il termine di tre anni dalla data della dichiarazione di fallimento, esso non avrebbe alcuna portata applicativa, nemmeno teorica, in quanto sarebbe di fatto assorbito dalla prescrizione estintiva quinquennale (a decorrere dal compimento dellatto revocabile concluso prima del periodo sospetto), sicché, anche se si fossero compiuti entrambi i termini prescrizionali al momento dellesercizio dellazione, leventuale eccezione di prescrizione sarebbe scrutinata già in ragione dellavvenuto decorso del quinquennio dalla data dellatto. Il Tribunale valuta, poi, il caso in cui il termine di prescrizione dellatto revocabile ex art. 66 L.F., compiuto appena prima dellinizio del periodo sospetto, si compia dopo la scadenza del detto termine triennale, rilevando come anche in tale ipotesi non sarebbe comprensibile qualificare il termine triennale dalla data di dichiarazione di fallimento come termine prescrizionale, non comprendendosi, infatti, le modalità in cui possono operare, sovrapponendosi lun laltro, due termini prescrizionali di durata diversa ed ancorati a diversi dies a quibus. In altri termini, ad avviso del Tribunale, la soluzione più appagante, allora, è che alloriginario termine quinquennale di prescrizione ex art. 2903 c.c. decorrente dalla data di compimento dellatto, compiuto poco prima dellinizio del periodo sospetto e destinato, una volta intervenuta la dichiarazione di fallimento, a spirare oltre il triennio dalla data del fallimento, si affianchi un nuovo e diverso termine, decadenziale, decorrente dalla data della dichiarazione di fallimento, destinato a compiersi nel triennio dalla dichiarazione stessa, entro il quale il curatore ha, a prescindere dal più lungo termine prescrizionale, il cui rispetto è comunque rimesso allatteggiamento difensivo del convenuto, lonere di promuovere lazione revocatoria ex art. 66 L.F. Si osserva, poi, come lapprodo interpretativo non muti se si analizza il rapporto tra questo termine triennale e quello, destinato a compiersi prima, di cinque anni dalla data della loro conclusione con riferimento agli atti passibili di azione revocatoria fallimentare ex art. 69 (con riferimento esclusivamente agli atti gratuiti compiuti tra coniugi più di due anni prima della dichiarazione di fallimento) ed art. 69 bis, secondo comma, L.F., essendo impossibile, invece, che per quelli compiuti nei periodi sospetti dellart. 67 L.F. i cinque anni dalla data degli atti ivi contemplati vadano a scadere in epoca antecedente rispetto alla scadenza del triennio dalla dichiarazione di fallimento. Il Tribunale afferma che anche il termine quinquennale previsto dal primo comma dellart. 69 bis L.F. è, con riferimento alle sole azioni revocatorie fallimentari, un termine di decadenza e non di prescrizione, per i seguenti motivi. In primis, la prescrizione estintiva ha come presupposto linerzia del titolare e, dunque, se il termine di cinque anni dalla data dellatto passibile di revocatoria fallimentare, fissato dal primo comma dellart. 69 bis L.F., fosse un termine di prescrizione, si dovrebbe concludere che alla data dellatto esisterebbe già un diritto da far valere e un soggetto che possa farlo valere. Si osserva che, invece, prima della dichiarazione di fallimento non esiste un tale diritto, né chi lo esercita, con la conseguenza che nel termine quinquennale dellart. 69 bis, primo comma, L.F. non viene in rilievo una inerzia del curatore, perdurando la quale si giunge alla prescrizione delle azioni revocatorie fallimentari, in quanto tra la data del compimento dellatto revocabile e la dichiarazione di fallimento (tra cui potrebbero intercorrere anche più di due anni, ex art. 69 L.F.) non vi è un curatore che possa esercitare lazione, e di cui si possa predicare linerzia. Sulla base di tali argomenti, il Giudice partenopeo conclude affermando che il termine quinquennale di cui al primo comma dellart. 69 bis L.F., con riferimento alle azioni revocatorie fallimentari, sia, anchesso, al pari di quello triennale, un termine di decadenza. In definitiva, il curatore decade dallazione revocatoria, sia essa ordinaria ex art. 66 L.F., sia essa fallimentare ex artt. 67, 69 e 69 bis, secondo comma, L.F., se essa non sia esercitata entro tre anni dalla dichiarazione di fallimento, sempre che, con riferimento alla sola azione revocatoria fallimentare (per la quale non vale il termine di prescrizione previsto dagli artt. 66 L.F. e 2903 c.c.), non sia già decorso il termine di cinque anni dalla data dellatto da revocare, perché altrimenti sarà questo termine che segnerà la decadenza dallazione. Viene, a questo punto affrontata lulteriore questione di quale sia latto che impedisca il verificarsi della decadenza. Con riferimento alla prescrizione e ai diritti potestativi ad esclusivo esercizio giudiziale, che in campo processuale danno vita alle azioni costitutive c.d. necessarie, e che sono nominalmente assoggettati a prescrizione (azione di annullamento, azione di rescissione, azione di risoluzione del contratto, azione di riduzione, etc.), il Tribunale ritiene che essa sia interrotta solo con la proposizione della domanda che costituisce la modalità di esercizio dellazione (art. 99 c.p.c.). Ciò in quanto, se in alcuni casi (es. azione di annullamento, di rescissione, revocatoria ordinaria, revocatoria fallimentare, riduzione, garanzia per vizi nella compravendita, risoluzione giudiziale del contratto) solo lautorità giudiziaria può costituire, modificare o estinguere rapporti giuridici (art. 2908 c.c.), è consequenziale ritenere che la prescrizione delle azioni costitutive che riflettono sul piano processuale i diritti potestativi ad esclusivo esercizio giudiziale sia interrotta solo dal compimento da parte dellattore delle formalità necessarie ad adire lautorità giudiziaria, mentre le formalità necessarie a garantire al convenuto la conoscenza effettiva o legale della domanda proposta al giudice appartengono alla diversa sfera degli atti tesi ad instaurare il contraddittorio con il convenuto (art. 101 c.p.c.; artt. 24, II comma e 111, II comma Cost.), il rispetto del cui principio è un vero e proprio requisito di legalità costituzionale del processo. Né, a parere di questo Giudice, la conclusione che il termine posto allesercizio delle azioni revocatorie fallimentari dallart. 69 bis, primo comma, L.F. sia un termine di decadenza può ritenersi smentita dal disposto del primo comma dellart. 95 L.F. (
il curatore può eccepire linefficacia del titolo su cui sono fondati il credito o la prelazione, anche se è prescritta la relativa azione), riferendosi la norma, quando parla di prescrizione, al termine di prescrizione ex art. 2903 cc di cinque anni dellazione revocatoria ordinaria ex art. 66 L.F. decorrente dalla data dellatto. Ciò che poi rileva, secondo il Tribunale, è la circostanza che è stata posta la regola per la quale la consunzione del potere di agire in revocatoria ordinaria o fallimentare non impedisce al curatore di far valere linefficacia del titolo su cui sono fondati il credito o la prelazione. Sicché, il fatto che il curatore possa sempre eccepire linefficacia del titolo su cui si basano le richieste del creditore in sede di verifica del passivo, anche se il potere di agire in revocatoria si sia consumato per il decorrere dei termini di cui allart. 69 bis L.F., lascia concludere che quel potere di azione, seppur non modificabile pattiziamente quanto alle condizioni temporali del suo esercizio, non riguardi una materia di diritto sostanziale sottratta alla disponibilità delle parti ai sensi e per gli effetti dellart. 2969 c.c., ditalché la decadenza dallazione revocatoria del curatore non può essere rilevata dufficio dal Giudice (cfr., analogamente, in tema di impugnazione delle delibere condominiali, Cass. civ., sez. II, 28 novembre 2001, n. 15131, Cecconi c. Cond. Via Spartaco 24, Milano). Ne deriva che i termini ex art. 69 bis L.F. sono termini alternativi che sanciscono una decadenza dallazione revocatoria fallimentare in capo al curatore, che però non può essere rilevata dufficio dal Giudice. Quanto allatto necessario e sufficiente per interrompere la decadenza dallazione revocatoria ex art. 69 bis L.F., ritiene il Tribunale che esso possa essere individuato nel compimento da parte dellattore, entro il termine previsto per lesercizio dellazione, di tutto quanto è in suo potere e ricada sotto la sua responsabilità per iniziare il giudizio. In altri termini, la decadenza dallazione revocatoria ex art. 69 bis L.F. è impedita con il compimento dellatto che determina la litispendenza. In conclusione, il Tribunale, sulla base di questo articolato iter motivazionale, giunge ad affermare come, nel caso in esame, essendosi ricostruito il termine triennale ex art. 69 bis L.F. come termine di decadenza, vista la contumacia della convenuta, la decadenza dallazione costitutiva necessaria esperita non possa essere rilevata dufficio dal Giudice, pur essendo stato latto introduttivo di citazione consegnato allufficiale giudiziario, non scusabilmente, oltre i tre anni dalla dichiarazione di fallimento, per cui, esaminato il merito della controversia e ritenuta la stessa fondata, il Tribunale ha accolto la domanda. Con la sentenza in esame, il Tribunale di Napoli è ritornato sulla questione interpretativa concernente la natura del termine triennale previsto dal primo comma dellart. 69 bis, giungendo ad affermare, con una ricchezza di complessi argomenti logici e di diritto, trattarsi di un termine di decadenza. Si segnala che la questione, in alcun modo pacifica, è stata recentemente affrontata da altra pronuncia del Tribunale di Napoli (Tribunale di Napoli, sezione fallimentare, dott. Stanislao De Matteis - 30 Aprile 2013 -) che, sulla base di un diverso iter argomentativo, è giunta a conclusioni di segno opposto....
Processo telematico, le inefficienze rischiano di ricadere sugli avvocati
Si chiama "Watson" ed è un personal computer pensante al quale stanno lavorando da qualche tempo alla IBM. Ancora il progetto è nella fase sperimentale, ma i ricercatori della nota azienda americana non disperano di riuscire a creare a breve un'intelligenza artificiale che sia in grado di elaborare dati in maniera ragionata e di dare risposte a domande del tipo «la vendita di videogame violenti dovrebbe essere vietata ai minori?».
ANATOCISMO: lazione di mero accertamento del saldo e limmutabilità della natura ripristinatoria o solutoria delle rimesse
A seguito del noto e dirompente intervento interpretativo della Suprema Corte di cui alla sentenza 24418/2010, i clienti delle Banche che intendono contestare, in relazione a rapporti di conto corrente, lapplicazione di interessi anatocistici o altre condizioni contrattuali reputate illegittime, formulano oggi ricorrentemente una domanda diversa da quella di ripetizione dellindebito in senso stretto (domanda di condanna): chiedono, cioè, la ri-quantificazione del saldo del rapporto (domanda di accertamento, cioè ripristinatoria e non ripetitoria), epurato da tutti gli addebiti ritenuti illegittimi, formulando, però, spesso contestualmente una domanda di condanna della Banca alla restituzione delleventuale saldo a credito derivante dalla ri-quantificazione. Tale tipo di domanda, per la stessa citata sentenza della Corte di Cassazione, non sarebbe soggetta a limiti prescrizionali. Non è pertanto ardimentoso affermare che, attraverso la sua proposizione, i clienti mirano ad aggirare gli oneri allegatori e probatori e le pesanti limitazioni temporali che potrebbero derivare dalla proposizione, ormai nettamente desueta, della diversa domanda di ripetizione. Questultima domanda dovrebbe oggi necessariamente dirigersi verso i pagamenti avvenuti in conto degli interessi contestati, non essendo più proponibile e coltivabile, come noto, una richiesta di ripetizione riguardante gli addebiti sul conto conseguenti alle condizioni contestate. Gli attori potrebbero però andare incontro al rischio processuale di vedersi eccepire la prescrizione in relazione ai pagamenti di cui non fosse dimostrata la natura ripristinatoria; al contempo, qualora venisse appurata processualmente lesistenza di un affidamento, potrebbero sentirsi contestare che, in relazione alle rimesse intervenute a fronte di una esposizione non demarginante il limite dellaffidamento, nessun diritto alla relativa ripetizione potrebbe esser loro riconosciuto, difettando tali rimesse del requisito della solutorietà e non essendo quindi le stesse qualificabili come pagamenti. Sono concetti questi ampiamente e chiaramente illustrati dalla Corte di legittimità con la sentenza in commento, così sinteticamente riassumibili: a).gli addebiti per interessi e commissioni indebitamente effettuati non sono ripetibili, comportando semplicemente un incremento del debito del correntistia o una riduzione del credito di cui egli ancora dispone; b).solo le rimesse che hanno pagato tali addebiti sono ripetibili, a condizione che le stesse abbiano avuto lo scopo e leffetto di uno spostamento patrimoniale a favore della banca; non lo sarebbero, pertanto, i versamenti intervenuti in un momento in cui il passivo del conto non superava il limite dellaffidamento concesso al cliente (rimessa ripristinatoria, diversa da quella solutoria); c).in presenza di rimesse meramente ripristinatorie il cliente è legittimato esclusivamente a contestare il saldo finale del conto, nella misura in cui lo stesso sia viziato da interessi non dovuti, e nel caso in cui lo abbia già saldato, la prescrizione decorrerà dal relativo pagamento; d).la differenziazione tra rimesse solutorie e ripristinatorie, pertanto, rileva non solo ai fini della decorrenza del termine prescrizionale della relativa azione di ripetizione (dalla effettuazione della rimessa nel primo caso, dal pagamento del saldo finale di chiusura del conto nel secondo caso) ma ancor prima al fine degli effetti ripetitori della domanda: la rimessa solutoria, rappresentando un atto dispositivo, è ripetibile per lintero, quella ripristinatoria non è ripetibile se non entro il limite (del pagamento) del saldo finale del conto. Il concetto di cui ai punti c) e d), per quanto chiaramente illustrato dalla Suprema Corte, non pare correttamente interpretato nella prassi o, comunque, non ne risultano colte appieno tutte le implicazioni. Vediamo, in primo luogo, perché lo stesso sia agevolmente enucleabile dalla sentenza 24418/2010 della Corte di Cassazione. Appare sufficiente, a tal fine, la lettura delle pagg. 13 e 14 della sentenza: Un versamento eseguito dal cliente su un conto il cui passivo non abbia superato il limite dellaffidamento concesso dalla banca con lapertura di credito non ha né lo scopo né leffetto di soddisfare la pretesa della banca medesima di vedersi restituire le somme date a mutuo (credito che, in quel momento, non sarebbe scaduto né esigibile), bensì quello di riespandere la misura dellaffidamento utilizzabile nuovamente in futuro dal correntista. Non è, dunque, un pagamento, perché non soddisfa il creditore ma amplia (o ripristina) la facoltà dindebitamento del correntista; e la circostanza che, in quel momento, il saldo passivo del conto sia influenzato da interessi illegittimamente fin lì computati si traduce in unindebita limitazione di tale facoltà di maggior indebitamento, ma non nel pagamento anticipato di interessi. Di pagamento, nella descritta situazione, potrà dunque parlarsi soltanto dopo che, conclusosi il rapporto di apertura di credito in conto corrente, la banca abbia esatto dal correntista la restituzione del saldo finale, nel computo del quale risultino compresi interessi non dovuti e, perciò, da restituire se corrisposti dal cliente allatto della chiusura del conto. Da notare che la Corte, avendo ovviamente ben presente che laccertamento della eventuale natura indebita della esazione del saldo finale del conto presuppone la preventiva ri-quantificazione di questultimo, ha testualmente limitato il diritto di ripetizione del correntista al saldo risultante dalla contabilità della banca, ignorando lipotesi che dalla ri-quantificazione possa scaturire, anziché un minor debito, un saldo a credito a favore del cliente. Le rimesse ripristinatorie, pertanto, come cercheremo di spiegare in seguito, non divengono solutorie e, quindi, ripetibili, per effetto della chiusura del conto, il cui saldo finale fornisce la misura massima dellindebito accertabile. La situazione, ovviamente, non dovrebbe mutare ove il cliente, vistosi richiedere il pagamento del saldo, anziché pagarlo e poi promuovere azione per ripeterlo, formuli domanda finalizzata allaccertamento della sua legittimità (cioè una domanda di ri-quantificazione nel senso sopra descritto): anche in tal caso, per logica coerenza con quanto affermato dalla Corte a proposito dellipotesi in cui lo abbia già pagato, lattore dovrebbe poter beneficiare al massimo del suo azzeramento. Il concetto, dunque, discente de plano dalla stessa linea argomentativa tracciata dalla Suprema Corte. La sua applicazione, tuttavia, non preoccupa apparentemente i contendenti nelle cause per interessi e anatocismo, oggi assorbite, come detto, dalla diversa questione della rideterminazione del saldo finale del rapporto epurato dagli addebiti non legittimi. Infatti, la sensazione diffusa è che non abbia senso apparente preoccuparsi dei limiti ripetitori di un versamento quando a esser posto in discussione non è il versamento stesso, ma laddebito (di cui si invoca lillegittimità) che vi ha dato causa. Alla luce di quanto illustrato, tuttavia, tale interpretazione parrebbe in contrasto con il lucido e chiaro insegnamento della Corte, oltre che con le regole dellOrdinamento e della stessa logica. Sul piano delle regole, è principio a dir poco pacifico che tra la valutazione della validità di una obbligazione e la verifica della ripetibilità del relativo adempimento esiste una interdipendenza solo funzionale nel senso che, se è vero che linvalidità della obbligazione può essere causa della ripetizione delladempimento (facendolo divenire indebito) è altrettanto indubbio che la ripetibilità di questultimo soggiace a regole sue proprie e non discende automaticamente dallaccertamento della invalidità della obbligazione. Una evidente applicazione di questo concetto è data dallart. 1422 c.c. che scinde appunto la prescrizione dellazione di nullità da quella relativa allazione di ripetizione dellindebito (limprescrittibilità della prima non condiziona la prescrizione dellaltra). Del resto, come detto, è la stessa Suprema Corte, nella sentenza più volte richiamata, a porre in evidenza tale concetto: Non può, pertanto, ipotizzarsi il decorso del termine di prescrizione del diritto alla ripetizione se non da quando sia intervenuto un atto giuridico, definibile come pagamento, che lattore pretende essere indebito, perché prima di quel momento non è configurabile alcun diritto alla ripetizione. Né tale conclusione muta nel caso in cui il pagamento debba dirsi indebito in conseguenza dellaccertata nullità del negozio giuridico in esecuzione al quale è stato effettuato, altra essendo la domanda volta a far dichiarare la nullità di un atto, che non si prescrive affatto, altra quella volta ad ottenere la condanna alla restituzione di una prestazione eseguita: sicché questa Corte ha già in passato chiarito che, con riferimento a questultima domanda, il termine di prescrizione inizia a decorrere non dalla data della decisione che abbia accertato la nullità del titolo giustificativo del pagamento, ma da quella del pagamento stesso: Cass. 13 aprile 2005, n. 7651. La ripetizione delladempimento, pertanto, soggiace a regole sue proprie e non è condizionata se non in rapporto di causa/effetto dallaccertamento della nullità della obbligazione che le ha dato causa. Scendendo sullo specifico campo del conto corrente, non si comprende allora, perché, se una rimessa bancaria è, per motivi giuridici suoi propri, non ripetibile (ad esempio perché non solutoria), lo debba divenire a seguito dellaccertamento della invalidità del relativo titolo giustificativo. In tema di prescrizione, per esempio, la stessa Corte di Cassazione, con la sentenza 9/4/2003 n. 5575, ha stabilito espressamente: in materia contrattuale, deve escludersi la permanenza di un interesse allaccertamento e alla declaratoria di nullità di un contratto quando risulti ormai prescritta lazione di ripetizione della prestazione in base ad esso eseguita. Ciò dimostra intanto la giuridica fondatezza delleccezione di prescrizione che le banche formulano a fronte delle domande di ri-quantificazione avanzate dai clienti, tesa ad evitarne gli effetti in relazione agli addebiti illegittimi saldati con rimesse prescritte (salvo verificare, ma non è questa la sede, su chi gravi il relativo onere probatorio). La portata dirompente, ma assolutamente logica, dellenunciato principio, dovrebbe però cogliersi in rapporto alleccezione, che quasi sempre gli attori fanno per aggirare leccezione di prescrizione della banca, della natura affidata del rapporto e della conseguente efficacia meramente ripristinatoria di tutte le rimesse, onerando della prova contraria la convenuta (di impossibile assolvimento nel caso in cui nessun affidamento fosse stato contrattualizzato). Non è infrequente, in proposito, che il Giudice qualifichi assurdamente il rapporto come assistito da un fido di fatto giuridicamente opponibile e ridetermini il saldo sulla base delle risultanze della CTU fondate sulla natura ripristinatoria di tutte le rimesse intercorse sul conto. Poiché, quasi sempre, da questa rideterminazione discende laccertamento di un saldo creditore del conto spesso rilevantissimo, stante linoperatività della prescrizione a favore del cliente, vi è legittimamente da domandarsi se questo ragionamento non contrasti con i principi appena illustrati. Abbiamo visto, infatti, che lunico oggettivo parametro di contestazione nel caso di rimesse meramente ripristinatorie dovrebbe essere il saldo finale del conto risultante dalla contabilità della banca che, se pagato, fonderebbe un corrispondente diritto ripetitorio in capo al cliente (nella misura in cui, ovviamente, quel saldo fosse viziato da addebiti illegittimi). Si è inoltre dimostrato che la situazione non muta nel caso in cui il cliente eviti di pagare e proponga anticipatamente una azione volta ad accertare la legittimità del saldo del conto. E opportuno precisare che gli effetti sarebbero gli stessi nel caso in cui tale azione di accertamento fosse proposta in costanza di rapporto e, quindi, prima della sua chiusura; anche su questo specifico punto è intervenuta la Corte di Cassazione che, con la più volte richiamata sentenza 24418/2010, ha stabilito: Sin dal momento dellannotazione, avvedutosi dellillegittimità delladdebito in conto, il correntista potrà naturalmente agire per far dichiarare la nullità del titolo su cui quelladdebito si basa e, di conseguenza, per ottenere una rettifica in suo favore delle risultanze del conto stesso. E potrà farlo, se al conto accede unapertura di credito, allo scopo di recuperare una maggior disponibilità di credito entro i limiti del fido concessogli. Ma non potrà agire per la ripetizione di un pagamento che, in quanto tale, da parte sua non ha ancora avuto luogo. Abbiamo altresì visto che un versamento, se irripetibile per ragioni giuridiche sue proprie, non diviene ripetibile per effetto dellaccertamento della invalidità del suo titolo giustificativo; se quindi, il versamento era ripristinatorio e, quindi, privo del carattere della solutorietà, nessuna utilità giuridica dovrebbe avere leventuale accertamento della sua non debenza, stante la sua innata e originaria irripetibilità. Ciò perché appare priva di senso logico e giuridico una azione finalizzata allaccertamento del fondamento indebito di un versamento privo di natura solutoria. Conseguentemente, sarebbe illogica una condanna della banca di retrocessione al cliente delleventuale saldo divenuto creditore a seguito del ricalcolo, poiché tale inversione di segno (da a +) del saldo sarebbe esclusivamente dovuta alle rimesse intercorse in costanza di fido nel corso del rapporto, che si bilanciavano con gli addebiti per interessi accertati come illegittimi e che diventerebbero solutorie solo ex post; il rischio massimo per la banca dovrebbe essere rappresentato esclusivamente dallazzeramento integrale del saldo debitore del conto. Giova, in proposito, il richiamo ai principi enucleati negli anni dalla giurisprudenza in materia di revocatoria fallimentare delle rimesse in conto corrente. Sappiamo in proposito che, se una rimessa non è revocabile perché intercorsa in pendenza di fido, non lo è mai, neppure allesito della chiusura del rapporto; traslando il principio nella fattispecie in esame, sarà il saldo finale del conto a rappresentare la misura massima del beneficio fruibile dal cliente con lazione di ri-quantificazione, con un duplice ordine di conseguenze: 1).se il conto non è stato ancora saldato alla data di notifica della citazione, la domanda di accertamento tendente alla ri-quantificazione non potrebbe spingersi oltre lazzeramento di quel saldo; 2).se, viceversa, il conto è chiuso ed è stato già saldato prima della introduzione della causa, gli effetti restitutori della ri-quantificazione non potrebbero sopravanzare detto saldo. Potrebbe essere obiettato, in proposito, che la valutazione della pertinenza delle rimesse va fatta solo allesito della declaratoria di nullità con la conseguenza che, tolto il titolo che aveva dato causa alla rimessa - rendendola al tempo stesso non ripetibile perché ripristinatoria - questa va a comporre una frazione della disponibilità del correntista che, pertanto, allesito dellaccertamento della nullità, potrà disporne nei limiti del saldo creditore ri-quantificato. Questa obiezione non convince, se non altro perché urta contro il pacifico orientamento giurisprudenziale recepito, come visto, anche da Cass. 24418/2010 in base al quale la prescrizione dellazione di ripetizione non decorre dalla sentenza accertativa della nullità ma dalla data di effettuazione della rimessa, se solutoria e, quindi, dal pagamento effettuato. E quindi il momento delleffettuazione della rimessa e del relativo contesto contabile quello da prendere a riferimento per verificare la ripetibilità della stessa. Il ragionamento contrario, peraltro, dimostra proprio la correttezza logica della tesi fin qui illustrata. Chi sostiene infatti la necessità della preventiva sottrazione dal conto degli addebiti illegittimi lo fa al fine di dimostrare che la prescrizione non è maturata, perché le rimesse sarebbero state solo formalmente solutorie ma effettivamente ripristinatorie: ma allora esse non sarebbero pagamenti e la loro conseguente irripetibilità impedirebbe alle stesse di andare a comporre il saldo finale creditore del conto ri-quantificato. In pratica - e conclusivamente - tutto a nostro avviso si spiega sulla base del chiaro e semplice sillogismo sotteso alla sentenza 24418/2010 della Suprema Corte, confermato dalle sentenze successive, tra cui la n. 4518/2014: a).non può darsi ripetizione di ciò che non è solutorio; b).solo ciò che è solutorio si prescrive; c).ciò che non si prescrive non è ripetibile. Pertanto, traslando la regola sul piano del processo, non si potrà escludere la solutorietà delle rimesse per sostenere limprescrittibilità dellazione e subito dopo riaffermarla per ottenerne la ripetizione, sia pure in modo indiretto attraverso la ri-quantificazione a credito (o a maggior credito) del saldo del conto. Avv. Daniele Peccianti Avv. Fausto Magi...
ANATOCISMO: solo i versamenti solutori sono da considerarsi pagamenti suscettibili di ripetizione
Se le rimesse sono ripristinatorie la banca non può eccepire la prescrizione ma la domanda di ripetizione anche se del saldo creditore riquantificato dal CTU a seguito della espunzione degli addebiti illegittimi non può essere accolta. Lo afferma il Tribunale di Lucca con la sentenza 542 del 7/04/2014(Giudice Dott. Mondini) sul presupposto, peraltro pacifico in base a Cass.SS.UU. 24418/2010, che i versamenti ripristinatori, cioè intercorsi in presenza di una esposizione coperta da affidamento, non sono pagamenti. La pronuncia, che appare perfettamente coerente con linsegnamento delle SS.UU. e con i successivi interventi interpretativi della Corte di Cassazione (in particolare sentenza 798/2013), introduce un principio innovativo in campo giurisprudenziale, ove il dibattito sulla individuazione del soggetto onerato della prova della natura solutoria dei versamenti ha portato a dimenticare che la differenziazione tra rimesse solutorie e rimesse ripristinatorie rileva, ancor prima che sul piano della prescrizione dellactio indebiti, su quello della ripetibilità dei versamenti stessi. Lesempio più eclatante di ciò è dato proprio da Cass. 4518/2014 che, cassando per lappunto una sentenza del Tribunale di Lucca (la n. 89/2007), è intervenuta proprio sullo specifico ambito della decorrenza della prescrizione dellactio indebiti precisando che, in applicazione di Cass. SS.UU. 24418/2010, in assenza di prova contraria da parte della banca convenuta, i versamenti debbono intendersi come tutti ripristinatori (con la conseguente decorrenza della prescrizione dalla esazione del saldo finale del conto da parte della Banca). Tale intervento interpretativo (motivato, come detto, solo dalla esigenza di individuare il dies a quo della prescrizione) è utilizzato nella prassi dagli attori per respingere leccezione di prescrizione della Banca, assumendo la natura affidata del rapporto e sostenendo essere gravata la convenuta dellonere di dimostrare lintervenuto pagamento - mediante rimesse solutorie intercorse prima del decennio antecedente latto interruttivo della prescrizione - degli addebiti per interessi illegittimi. La sentenza in commento del Tribunale di Lucca ha ricondotto la questione entro il corretto quadro interpretativo tracciato dalle SS.UU., alle quali, peraltro, anche la sentenza 4518/2014 si ispira. Se, per effetto degli accertamenti processuali e delle conseguenze applicative delle regole sullonere della prova, le rimesse debbono qualificarsi come ripristinatorie (peraltro in conformità a quanto affermato da parte attrice), non potrà esservi spazio per una azione ripetitoria giuridicamente intesa. E tale è anche quella finalizzata, come nel caso esaminato dal Tribunale di Lucca, a ripetere il saldo creditore derivante dalla riquantificazione operata dal CTU (o la differenza tra il saldo ricalcolato e quello antecedente al ricalcolo, se già creditore). Quindi, in presenza di rimesse accertate come tutte ripristinatorie dovrebbe essere inaccoglibile una richiesta di condanna della banca alla retrocessione del saldo divenuto creditore a seguito del ricalcolo chiesto al CTU (o della differenza tra il saldo ricalcolato e quello eventualmente creditore precedente al ricalcolo), poiché l inversione di segno (da a +) o lincremento del saldo sarebbero dovuti esclusivamente ai versamenti ripristinatori intercorsi in costanza di fido nel corso del rapporto, che diverrebbero solutori (cioè ripetibili) solo ex post, proprio a seguito del ricalcolo. In pratica, la sentenza in commenti del Tribunale di Lucca sembra operare un una corretta applicazione del sillogismo sotteso alla sentenza 24418/2010 della Suprema Corte, confermato dalle sentenze successive, tra cui la n. 4518/2014: a)non può darsi ripetizione di ciò che non è solutorio; b)solo ciò che è solutorio si prescrive; c)ciò che non si prescrive non è ripetibile....
SRL: NON PUÒ ESSERE CANCELLATA D'UFFICIO DAL REGISTRO DELLE IMPRESE
L'istituto della cancellazione d'ufficio dal registro delle imprese non è alfine utilmente invocabile quando si discorra dell'adempimento pubblicitario della cancellazione della società ai sensi dell'art. 2495 cc, perché questo adempimento, legato all'approvazione del bilancio di liquidazione, rappresenta l'epilogo della vicenda societaria e segna di questa il momento estintivo. Un simile adempimento è rimesso unicamente ai liquidatori, per l'ovvia ragione che da tale momento, per le obbligazioni sociali insoddisfatte, risponderanno i soci, o i liquidatori stessi, se il mancato pagamento è dipeso da loro colpa. Lo ha deciso la Corte di Cassazione con la sentenza n. 9007 del 18 aprile 2014 in merito alla sussistenza o meno dell'obbligo di pagamento del tributo annualmente dovuto per l'iscrizione nel registro delle imprese. Nel caso di specie, una società a responsabilità limitata aveva infatti proposto opposizione avverso una cartella di pagamento con cui la Camera di Commercio di Bari aveva richiesto il versamento della somma dovuta a titolo di diritto camerale. L'opposizione fu accolta sia in prima che in seconda istanza dai giudici tributari poiché la ricorrente aveva - da tempo - provveduto a depositare il bilancio finale di liquidazione, sebbene non fosse stata disposta la cancellazione dal registro delle imprese. La Commissione tributaria regionale evidenziò tuttavia che la cancellazione dal registro delle imprese avrebbe comunque dovuto essere eseguita d'ufficio a fronte della messa in liquidazione della società.. L'ente creditore ha quindi proposto ricorso per cassazione contestando - in particolare - la violazione o la falsa applicazione dell'art. 2495 cc e dell'art. 2491 cc. Si rammenta che secondo quanto previsto dall'art. 2191 cc, il giudice del registro può ordinare la cancellazione d'ufficio in presenza di una iscrizione irregolare perché avvenuta in assenza della condizioni richieste dalla legge. A ciò si aggiunte il fatto che una iscrizione può essere disposta d'ufficio a norma dell'art. 2190 cc soltanto nel caso in cui si tratti di una iscrizione obbligatoria e venga disposta su ordine del giudice del registro. L'art. 2191 cc va però anche coordinato con quanto disposto dal DPR 23 luglio 2004 n. 247 che prevede un procedimento specifico per l'iscrizione d'ufficio della cancellazione dal registro delle imprese di determinate tipologie di imprenditori: imprenditori individuali, imprese artigiane e società di persone. Non si deve inoltre tralasciare il fatto che la cancellazione d'ufficio dal registro di dette imprese può essere disposto a norma del DPR 23 luglio 2004, n. 247 soltanto in presenza di specifiche condizioni. Per quanto concerne le imprese individuali, la cancellazione d'ufficio è infatti disposta per il decesso o l'irreperibilità dell'imprenditore o per il mancato compimento di atti di gestione per tre anni consecutivi oppure per la perdita dei titoli autorizzativi o abilitativi all'esercizio dell'attività dichiarata. La cancellazione d'ufficio delle società di persone può essere invece ordinata nel caso di irreperibilità presso la sede sociale, mancato compimento di atti di gestione per tre anni consecutivi, mancanza del codice fiscale, mancata ricostituzione dei soci nel termine di tre mesi o decorrenza del termine di durata in assenza di proroga tacita. I requisiti previsti per la cancellazione d'ufficio delle imprese individuali e delle società di persone trovano applicazione anche con riferimento alle imprese artigiane a seconda della propria forma giuridica. La disciplina prevista dal DPR 23 luglio 2004 n. 247 non può pertanto trovare applicazione per una tipologia indistinta di imprese. Alla luce del quadro normativo sopra richiamato, i giudici di legittimità hanno indi ritenuto errata l'affermazione contenuta nella sentenza impugnata secondo cui il deposito del bilancio di liquidazione avrebbe dovuto determinare come conseguenza la cancellazione d'ufficio della società. La cancellazione della società così come regolata dall'art. 2495 cc non può dunque dirsi collegata all'istituto della cancellazione d'ufficio dal registro delle imprese ex art. 2191 cc. Ciò in ragione del fatto che la cancellazione della società ex art. 2495 cc è un adempimento che deve essere svolto dai liquidatori dopo aver approvato il bilancio finale di liquidazione, la cui deliberazione costituisce il momento estintivo della società stessa. Con la cancellazione della società infatti i creditori sociali non soddisfatti possono - a norma dell'art. 2495, comma 2, cc - far difatti valere i loro crediti sia nei confronti dei soci fino alla concorrenza delle somme da questi riscosse in base al bilancio finale di liquidazione sia nei confronti dei liquidatori se il mancato pagamento è dipeso da loro colpa. La Corte di Cassazione ha pertanto evidenziato che nonostante la società avesse depositato il bilancio finale di liquidazione non era stata tuttavia cancellata dal registro delle imprese da parte dei liquidatori ai sensi dell'art. 2495 cc, donde la stessa non poteva essere cancellata d'ufficio e doveva ritenersi obbligata alla liquidazione del diritto camerale....
Il mercato degli studi legali italiani ed internazionali in Turchia
Lo sviluppo e la forte crescita economica mostrati dalla Turchia nell'ultimo decennio ha portato ad un crescente interesse da parte degli investitori stranieri e conseguentemente ad un aumento degli investimenti diretti esteri.
Sinergie ed intrecci normativi: il modello anti-corruttivo
La disciplina sull'anticorruzione ha punti di contatto con quelle sulla trasparenza, sulla responsabilità 231 e sulla tutela dei dati personali. Ad una prima riflessione questo accostamento potrebbe non risultare di prima evidenza; eppure può fondatamente affermarsi •che la trasparenza è propedeutica ad un'efficace azione anticorruttiva,
Le materie arbitrabili
Il perimetro entro il quale si collocano le controversie che possono essere oggetto di arbitrato si presenta in graduale e progressiva espansione. Un significativo impulso è stato dato dal d.lgs. n. 40/2006, esso ha infatti riscritto la norma che fissa il criterio per la determinazione delle materie devolvibili ad arbitri.
Il punto sulla indisponibilità dei diritti del lavoratore
Quando si parla di "indisponibilità dei diritti" nel mondo del diritto del lavoro si ricollega immediatamente al c.d. vincolo di irrinunciabilità di quanto espressamente stabilito dall'art. 2113 cod. civ.;
DERIVATI: la dichiarazione di operatore qualificato esime lintermediario dagli obblighi informativi
In tema di contratti di intermediazione mobiliare, ai fini dell'appartenenza del soggetto, che stipula il contratto con l'intermediario finanziario, alla categoria degli operatori qualificati, è sufficiente l'espressa dichiarazione per iscritto da parte dello stesso di disporre della competenza ed esperienza richieste in materia di operazioni in valori mobiliari - ai sensi dell'art. 13 del regolamento Consob approvato con delibera 2 luglio 1991 n. 5387 - la quale esonera l'intermediario dall'obbligo di ulteriori verifiche, in mancanza di elementi contrari emergenti dalla documentazione già in suo possesso. Salvo allegazioni contrarie in ordine alla discordanza tra contenuto della dichiarazione e situazione reale, tale dichiarazione può costituire argomento di prova che il giudice può porre alla base della propria decisione, art. 116 c.p.c., anche come unica fonte di prova, restando a carico di chi detta discordanza intenda dedurre l'onere di provare circostanze specifiche dalle quali desumere la mancanza di detti requisiti e la conoscenza da parte dell'intermediario delle circostanze medesime o almeno la loro agevole conoscibilità in base ad elementi obiettivi di riscontro. La ratio della normativa è quella di richiamare lattenzione del cliente circa l'importanza della dichiarazione ed a svincolare l'intermediario dall'obbligo generalizzato di compiere uno specifico accertamento di fatto sul punto, tenuto anche conto che nella disposizione in esame non si rinviene alcun riferimento alla rispondenza tra il contenuto della dichiarazione e la situazione di fatto effettiva e non è previsto a carico dell 'intermediario alcun onere di riscontro della veridicità della dichiarazione, riconducendo invece alla responsabilità di chi amministra e rappresenta la società dichiarante gli effetti di tale dichiarazione. Sono questi i principi di diritto ribaditi, sulla scorta di consolidata giurisprudenza, dal Tribunale di Torino, in persona del dott. Giovanni Liberati, con la sentenza n.3462 del 13 maggio 2014, intervenendo con argomentazioni ampie e precise su un tema di spiccata attualità, al centro di un vasto contenzioso tra clienti ed istituti di credito. Punto nevralgico della pronuncia, la questione circa la sussistenza, la veridicità e gli effetti della dichiarazione di operatore qualificato. Lattuale contesto normativo, infatti, è incentrato sul sistema della graduazione della tutela, tale che le regole di comportamento degli intermediari devono diversamente atteggiarsi, a seconda delle diverse esigenze di tutela degli investitori connesse con la qualità e l'esperienza professionale dei medesimi (art. 6, co. 2 del TUF). Sul punto, può essere utile ricordare il principio espresso dalla Corte di legittimità, nella prima pronuncia sulla questione del valore della dichiarazione di essere operatore qualificato rilasciata dal legale rappresentante della società o persona giuridica. Trattasi della sentenza n.12138 del 26 maggio 2009, richiamata espressamente dal Tribunale piemontese. In essa, gli Ermellini hanno chiarito che la natura di operatore qualificato discende dalla contemporanea presenza di due requisiti: uno di natura sostanziale, vale a dire l'esistenza della specifica competenza ed esperienza in materia di operazioni in valori mobiliari in capo al soggetto (società o persona giuridica); l'altro, di carattere formale, costituito dalla espressa dichiarazione di possedere la competenza ed esperienza richiesta, sottoscritta dal soggetto medesimo. Quanto alla pronuncia qui in esame, la vicenda trae origine dalla domanda con la quale una società ha convenuto in giudizio la banca con la quale aveva stipulato (e successivamente rimodulato) contratti aventi ad oggetto strumenti finanziari c.d. derivati, deducendone la nullità, in quanto strutturati in modo da generare sicuri vantaggi economici per la banca e sicure perdite per la attrice, nonché chiedendo la risoluzione ed il risarcimento dei danni, per violazione di tutti gli obblighi di comportamento posti a carico degli intermediari finanziari dalla normativa di settore e degli obblighi generali di correttezza e buona fede stabiliti dal codice civile, eccependo vieppiù linadeguatezza degli strumenti rispetto alle proprie esigenze. Dal proprio canto, la convenuta Banca, ha contestato tutti gli addebiti, ricostruendo diversamente i fatti ed avvalendosi delle dichiarazioni testimoniali dei propri funzionari, direttamente interessati nella vicenda. Allesito di una complessa istruttoria, il Tribunale si è soffermato, in parte motiva, preliminarmente sul concetto di swap, identificato come strumento derivato che consiste nello scambio di flussi di cassa tra due controparti. A tal riguardo, questione assai dibattuta è quella relativa al se tale contratto derivato sia o meno sorretto da una causa e se tale causa sia meritevole ex art.1322 cc. In dottrina ed in giurisprudenza si è spesso sostenuto anche di recente la nullità per asserita mancanza dellelemento causale, almeno ogniqualvolta lalea che contraddistingue tale tipo di contrattazione manchi, ovvero sia soltanto unilaterale(*). A tale precisa contestazione, il Giudice torinese ha risposto, analizzata la situazione di fatto sulla base delle risultanze processuali, non ritenendo ravvisabile la dedotta nullità per mancanza di causa, per effetto della asserita (preventivata) assenza di rischio per la banca e, dunque, di alea, e rinvenendo nel contratto stipulato lo schema tipico dello SWAP, più volte ritenuto valido, lecito e ammissibile, consiste nello scambio fra le parti, in relazione ad un importo di riferimento dell'andamento dei due tassi (il cui andamento non era noto a priori, con la conseguenza che non pare condivisibile l'affermazione della attrice circa l'insussistenza di alea o rischio per la banca). Disattesa tale doglianza, il Giudice si è soffermato sulla veridicità ed effettività della dichiarazione di operatore qualificato, ritenendo provato il fatto che essa fosse stata resa consapevolmente (vale a dire previa idonea informativa da parte della Banca, nonché nellassenza di ulteriori elementi dai quali potesse evincersi la natura non qualificata del cliente), validamente, per iscritto e, per di più, confermata a più riprese, nel corso delle varie rinegoziazioni del contratto originario, nonché dellacquisto di ulteriori strumenti finanziari derivati. Una tale prova è stata raggiunta mediante le dichiarazioni degli stessi funzionari della Banca che avevano posto in essere materialmente le negoziazioni, smentendo di fatto la prospettazione di parte attrice e confermando la condotta ineccepibile dellistituto di credito. Infatti, confermando lorientamento giurisprudenziale dominante, tale dichiarazione esime l'intermediario finanziario dagli OBBLIGHI INFORMATIVI di cui agli articoli 27, 28, 29 e 30, comma 1, del regolamento Consob n.11522 del 1998 ("A eccezione di quanto previsto da specifiche disposizioni di legge e salvo diverso accordo tra le parti, nei rapporti tra intermediari autorizzati e operatori qualificati non si applicano le disposizioni di cui agli articoli 27, 28, 29, 30, comma 1, fatta eccezione per il servizio di gestione, e COMMI e 3, 32, commi 3 ,4 e 5, 37, fatta eccezione per il comma 1, lettera d), 38, 39, 40, 41, 42, 43, comma 5, lettera b), comma 6, primo periodo, comma 7, lettere b) e c), 44, 45, 47, comma 1, 60, 61 e 62.", così il primo comma dell'art. 31 del suddetto regolamento Consob). Né sullintermediario grava alcun obbligo di verificare la corrispondenza della situazione di fatto a quanto formalmente e consapevolmente dichiarato, spettando al cliente lonere della prova contraria, a meno di eventuali discordanze emergenti ictu oculi dalle informazioni in possesso dellistituto. Per tali ragioni, richiamando i principi di diritto sopra enucleati, il Tribunale ha disatteso la domanda di parte attrice, condannandola alla rifusione delle spese e ponendo così un chiaro limite ai tentativi di rivalersi nei confronti dellistituto di credito, ogniqualvolta la contrattazione in strumenti derivati effettuata nella piena consapevolezza del rischio assunto e con lassistenza informativa dovuta dallintermediario, nei limiti previsti dalla legge per ciascuna categoria di clienti si risolva, per lacquirente, in gravi perdite finanziarie, dovute allandamento sfavorevole dei tassi o delle valute di riferimento. (*) Tale tesi è stata di recente smentita, tra gli altri, dal Tribunale di Torino, con uninteressante pronuncia già oggetto di commento su questa rivista (Sentenza - Tribunale di Torino, Dott.ssa Silvia Vitro - 24-04-2014 - n.2976 )....
BORSA: la consegna dei codici di accesso "on line" al promotore esclude la responsabilità della banca
La responsabilità solidale della società di intermediazione mobiliare per i danni arrecati a terzi nello svolgimento delle incombenze affidate ai promotori finanziari, va esclusa allorquando la condotta del danneggiato presenti connotati di "anomalia", vale a dire, se non di collusione, quanto meno di consapevole acquiescenza alla violazione delle regole gravanti sul promotore, palesata da elementi presuntivi. La consegna, ad un consulente finanziario dei propri codici di accesso ai servizi di banca "on line", integra un comportamento anomalo. Cosi si è pronunziata la Corte di Cassazione, prima sezione con la sentenza del 13-12-2013, n.27925, con la quale ha respinto il ricorso di un cliente il quale illegittimamente intendeva far ricadere sulla SOCIETÀ DI INTERMEDIAZIONE MOBILIARE il rapporto intercorso con il promotore finanziario. Nel caso di specie, era accaduto che alcuni clienti avevano conferito mandato personale ad un promotore finanziario per operare sul proprio conto bancario in via esclusiva, al di fuori di ogni eventuale rapporto di questi con la SOCIETÀ DI INTERMEDIAZIONE MOBILIARE, e che, per questo fatto, gli era stato riconosciuto un compenso ad personam. Tanto era avvenuto in quanto i clienti avevano consegnato i codici di accesso ai servizi on line, conferendo, in merito agli stessi, personalmente ed esclusivamente al promotore l'equivalente di un incondizionato mandato ad operare, il che significa che essi avevano trasferito al promotore il personale ed esclusivo potere di disporre del proprio denaro. La Corte, accertata la consapevolezza da parte dei clienti della anomalia nella gestione del proprio conto, da essi stessi avallata, escludeva ogni concorrente responsabilità della SOCIETÀ DI INTERMEDIAZIONE MOBILIARE e dei suoi procacciatori. In conclusione la consegna al promotore dei codici di accesso ai servizio banca on line rappresenta un comportamento anomalo che esclude la banca da qualsivoglia responsabilità. Per approfondimenti in materia si veda: HOME BANKING: LINTERMEDIARIO FINANZIARIO NON RISPONDE IN SOLIDO DELLILLECITO DEL PROMOTORE INTERMEDIAZIONE FINANZIARIA CASI DI RESPONSABILITÀ ESCLUSIVA DEL PROMOTORE Sentenza | Cassazione civile, sezione terza | 04-03-2014 | n.5020 ...
Sì alla richiesta dell'abbreviato dopo le conclusioni del Pm
«Nell'udienza preliminare la richiesta di giudizio abbreviato può essere presentata dopo la formulazione delle conclusioni da parte del pubblico ministero e deve essere formulata da ciascun imputato al più tardi nel momento in cui il proprio difensore formula le proprie conclusioni definitive». Lo hanno chiarito le Sezioni unite della Corte di cassazione, con la sentenza 20214, dopo l'«informazione provvisoria» resa in esito all'udienza pubblica del 27 marzo scorso, mettendo così fine ad un contrasto ...
Iscrizione ipotecaria, il processo esecutivo non sospende il termine ventennale
La pendenza di un processo esecutivo non incide sul decorso del termine ventennale durante il quale l'iscrizione di ipoteca conserva il suo effetto. Per cui, in caso di mancata rinnovazione, il titolare perde il privilegio rispetto agli altri creditori anche se il procedimento è in corso. Lo ha chiarito la Corte di cassazione, con la sentenza, 10632/2014, rigettando il ricorso presentato da una società contro il piano di riparto approvato dal giudice, nell'ambito di due procedure esecutive, che ...
CONVEGNO: INTERESSI CORRISPETTIVI E MORATORI USURA NEI CONTRATTI DI MUTUO
Intervento Avv. Francesco Fiore del foro di Avellino La problematica sulla natura usuraria del tasso di interesse moratorio è da poco divenuta di grande attualità. Questa problematica è stata sollevata dalla lettura della sentenza n. 350/2013 della Suprema Corte di Cassazione che afferma il seguente principio: ai fini dellapplicazione dellart.1815 c.c. e dellart. 644 c.p. si considerano usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge al momento in cui sono promessi o comunque convenuti a qualunque titolo e quindi anche a titolo di interessi moratori. Se a qualunque titolo osserva la Cassazione allora anche a titolo di mora. Alla luce di questo principio, una corrente di pensiero sostiene che per la verifica del superamento del c.d tasso soglia occorre sommare il tasso degli interessi corrispettivi con il tasso degli interessi moratori. E quindi sufficiente compiere loperazione aritmetica di sommare la cifra che indica il tasso di mora con la cifra che indica il tasso corrispettivo, confrontare tale somma aritmetica con il tasso soglia del periodo e, da tale confronto, ricavare leffetto giudico dellazzeramento di entrambi gli interessi. Poiché tale somma è normalmente superiore al limite oltre il quale gli interessi sono sempre usurari, è palese leffetto concreto di questo principio: - la clausola sarebbe nulla; - non dovrebbero applicarsi interessi di alcun tipo; - quelli già versati andrebbero restituiti, mentre quelli ancora da corrispondere non sarebbero più dovuti; - il mutuante deve restituire gli interessi ricevuti ed il mutuatario deve pagare solo la quota capitale. Invero lart.1815 c.c. comma 2 prevede la sanzione della riduzione a zero degli interessi: se sono convenuti interessi usurari, la clausola è nulla e non sono dovuti interessi così dispone la norma. Quindi, questa corrente di pensiero consente di aprire un filone contro il ceto bancario; tutti gli avvocati si attivano per iniziare il giudizio previo una consulenza tecnica che calcoli gli interessi pagati e che vanno restituiti. Consentitemi di dire che ragionando così si crea un danno al cliente e lo si espone ad una condanna alle spese che può essere rilevante e non sostenibile. Il Tribunale di Trani, ad esempio, con una decisione che riprenderemo infra, ha condannato il mutuatario a pagare la somma di 10.000,00. A mio avviso è onere dellavvocato esporre le motivazioni in diritto del suo agire; non è ammissibile dire che gli interessi corrispettivi vanno sommati agli interessi moratori; occorre anche formulare le motivazioni; non è sufficiente richiamare la sentenza 350/13; nell attuale sistema processuale ciò che si richiede alla parte è di spiegare gli argomenti di fatto, logici e giuridici della propria pretesa al fine di far valutare la propria domanda; e tanto non si realizza con la sola invocazione di una autorevole pronuncia ( Tribunale di Trani del 10.3.2014). Comunque prima di questa sentenza 350/2013, era opinione pacifica che, al fine di accertare se il tasso soglia fosse stato superato, il tasso convenzionale degli interessi moratori non doveva essere sommato a quello degli interessi corrispettivi. Dopo questa sentenza 350/13 una corrente di pensiero giunge a conclusione opposta e sostiene che al fine di verificare se il tasso degli interessi di mora sia superiore al tasso soglia e quindi ai fini dellapplicazione dellart. 1815 co. 2, gli interessi moratori vanno sommati a quelli corrispettivi. Questa opinione non mi convince. E non mi convince per diversi motivi. PRIMA RIFLESSIONE In verità la sentenza richiamata (la n.350/13) non ha affermato quanto auspicato ed invocato da qualcuno: non ha parlato di sommatoria di interessi con riguardo all usura. La sentenza invocata altro non fa che ribadire un principio interpretativo da tempo affermato dalla Corte di Cassazione (Cass. 5286/2000; Cass. 5324/2003; Cass. 16992/2007), cioè che la regola ex art. 1815 c.c. si applica alla pattuizione di interessi a qualunque titolo convenuti, cioè a quelli corrispettivi come a quelli moratori. Non vi è alcun cenno al fatto che gli interessi corrispettivi e quelli moratori vadano sommati tra loro, dando vita ad un presunto tasso sommatorio. La Cassazione si è limitata solo a ribadire il proprio orientamento in virtù del quale pure gli interessi moratori debbono essere sottoposti al vaglio di usurarietà al pari di quelli corrispettivi (cfr Cass. 5286/2000). SECONDA RIFLESSIONE Gli interessi moratori e corrispettivi non possono essere posti sullo stesso piano. Le parti pattuiscono un tasso diverso e alternativo per due differenti tipologie di interessi applicabili in ipotesi distinte e alternative. In un caso è fissato il tasso degli interessi corrispettivi del mutuo cioè quelli che rappresentano il prezzo dell operazione mutuo e il vantaggio che il mutuante riceve nel sinallagma. Nell altro caso si fissa la misura dell interesse dovuto ove il rapporto entri nella patologia, cioè ove la parte mutuataria non paghi quanto dovuto per la restituzione del denaro ricevuto in prestito. Le ragioni principali di questa differenziazione si rinvengono quindi, in primo luogo, nella funzione degli interessi moratori. Questi configurano una sorta di liquidazione presuntiva e forfettaria del danno causato dal mancato o dal ritardato pagamento di un obbligazione pecuniaria ( art.1224 co.1 c.c.). In una pronuncia del Collegio dell ABF così si legge: Il carattere risarcitorio degli interessi moratori pone questi ultimi su di un piano profondamente diverso dagli interessi corrispettivi. E soprattutto in situazioni patologiche li rende riequilibrabili attraverso il rimedio di salvaguardia dettato dallart.1384 c.c.. Gli interessi corrispettivi invece svolgono la funzione di pagamento per l uso di un bene, sono il corrispettivo che si paga per il godimento di un bene altrui ed entrano in gioco per così dire al momento della conclusione del contratto. Non va trascurato un altro elemento differenziale. A differenza degli interessi corrispettivi, nessun ruolo ha l interesse moratorio nella concessione del credito. Linteresse moratorio, dal punto di vista del debitore, assolve ad un ruolo essenzialmente dissuasivo ricordandogli che linadempimento comporta per lui un aggravio dellonere, mentre dal punto di vista del creditore, assume un ruolo puramente risarcitorio, non rappresentando un vero e proprio corrispettivo del credito erogato. Queste riflessioni inducono ad escludere in linea di principio gli interessi moratori dalla valutazione dell usura. Con ordinanza del 28.1.2014 il Tribunale di Milano ha rigettato la domanda formulata sulla sommatoria degli interessi corrispettivi e moratori con la seguente motivazione: Gli interessi corrispettivi e gli interessi moratori sono alternativi, nel senso che se si applicano i primi non si applicano i secondi. Questa distinzione è stata pure ripresa dal Tribunale di Trani nella sentenza del 10.3.2014. Leggo alcuni passaggi di questa sentenza, dove si affermano i seguenti principi: 1) Interessi corrispettivi ed interessi moratori, pattuiti come tassi diversi alternativi, applicabili in ipotesi distinte e alternative, non possono essere cumulativamente valutati ai fini del raffronto con il tasso soglia ex legge 108/96. 2) Sostenere che il tasso soglia ex legge 108/96 sarebbe superato per effetto della sommatoria fra il tasso debitore del mutuo e quello moratorio è un errore di carattere logico oltre che giuridico. 3) Pur in ipotesi di superamento della soglia antiusura per effetto della sommatoria dei due tassi si determinerebbe che non sono dovuti gli interessi moratori e non che non siano dovuti anche gli interessi corrispettivi che in ogni caso siano stati pattuiti entro la soglia. Questo ultimo principio era già stato enunciato nellordinanza emessa in data 28.1.2014 dal dott. Ardituro del Tribunale di Napoli, il quale così si esprime: ad essere sanzionata con la nullità totale della clausola che determina la misura degli interessi è solo la previsione relativa al tasso da applicare per gli interessi moratori, ma non anche quella per gli interessi corrispettivi che comunque sono dovuti. TERZA RIFLESSIONE Questa riflessione riguarda la necessità di confrontare due entità omogenee, vale a dire il metodo di verifica. Lart.1 della L. 108/96 afferma, fra laltro: Per la determinazione del tasso di interesse usurario si tiene conto delle commissioni, remunerazioni a qualsiasi titolo e delle spese, escluse quelle per imposte e tasse, collegate alla erogazione del credito. Lart.2, comma 1, afferma poi: Il Ministro del Tesoro, sentiti la Banca dItalia e lUfficio italiano dei cambi, rileva trimestralmente il tasso effettivo globale medio, comprensivo di commissioni, di remunerazioni a qualsiasi titolo e spese, escluse quelle per imposte e tasse,
. Entrambi gli articoli non danno alcuna indicazione circa il modo con cui si debba tener conto di commissioni, remunerazioni a qualsiasi titolo e spese
., non riportano, cioè, la formula da utilizzare per tradurre in due numeri (da confrontare) il tasso applicato al singolo rapporto e il tasso medio (da incrementare secondo le previsioni) per fissare il tasso soglia. La perfetta identità dei termini riportati negli artt. 1 e 2 comporta, come ovvio corollario, che devono coincidere sia il criterio con cui sono rilevati i tassi soglia sia il criterio con cui viene calcolato leventuale tasso usurario; in particolare va ritenuto che: a) la formula da utilizzare per determinare il tasso praticato per un singolo rapporto deve coincidere con quella utilizzata per determinare il tasso medio; b) ai termini che compaiono in tali formule deve essere attribuito lo stesso significato. Infatti valutare un eventuale superamento del tasso soglia confrontando due numeri ottenuti con metodologie diverse da quelle esposte ai punti a) e b) comporta inevitabilmente una violazione dellomogeneità di indicazioni contenute negli artt. 1 e 2 della 108/96. Queste considerazioni trovano conferma in una recente pronuncia del Collegio dellABF. Il ragionamento del Collegio è il seguente. Non esiste una nozione civilistica di usura per cui occorre far riferimento a quella offerta dall art. 644 c.p. Ma è questa una norma in bianco nel senso che non contiene tutti gli elementi costitutivi della fattispecie reato e rimette alla legge la concreta individuazione del c.d. tasso soglia mediante le rilevazioni trimestrali di cui alla legge 108/96. Ma neanche la legge speciale fissa un tasso usuraio, ma istituisce un procedimento per determinare con scadenza trimestrale quale sia il tasso usuraio in relazione alle diverse tipologie di operazioni di credito. L esito finale di questo procedimento, vale a dire la determinazione del tasso soglia, è effettuata dal Ministero del Tesoro, sentiti la Banca d Italia e lUfficio italiano dei cambi, in considerazione del tasso effettivo globale medio, comprensivo di commissioni, spese, remunerazioni etc. I valori medi sono pubblicati e si applica la previsione incrementativa da ultimo stabilita dal D.L. 13.5.2011 n. 70, vale a dire il tasso medio aumentato di un quarto + 4 punti. Quindi la nozione di interesse usuraio dipende dall esito di un procedimento nel quale assumono rilevanza le basi di calcolo che conducono ad individuare detta misura. In queste basi di calcolo sono incluse: le spese di istruttoria, le spese di chiusura della pratica, le spese di riscossione, il costo dellattività di mediazione, le spese di assicurazione, le sepe per i servizi accessori, ogni altra spesa connessa con loperazione di finanziamento, escluse le imposte e tasse, le spese notarili, gli interessi di mora, gli oneri assimilabili. L esclusione dalle segnalazione degli interessi di mora è stata ribadita dal decreto ministeriale del 25.3.2011 relativo ai tassi soglia trimestrali. Le istruzioni della Banca dItalia sulla rilevazione dei tassi medi ai fini dellusura hanno sempre precisato che gli interessi moratori sono esclusi dal calcolo del TEGM che costituisce la base del c.d. tasso soglia. Nei chiarimenti del 3.7.2013 la Banca d Italia precisa che gli interessi moratori non vanno presi in considerazione perché non sono dovuti dal momento dellerogazione del credito, ma solo a seguito di un eventuale inadempimento da parte del cliente. Da ciò possiamo convenire che il confronto tra il tasso soglia ed il tasso applicato in concreto è un confronto tra voci predefinite che attengono al costo del credito convenuto tra le parti con linsieme delle stesse voci di costo medio rilevate trimestralmente. Se quindi il tasso di mora non è parte delle rilevazione trimestrali non è corretto confrontare due entità diverse. E stato affermato che tra i due insiemi, quello pattuito tra le parti e quello rilevato al fine di identificare il tasso soglia, vi deve essere perfetta simmetria. E palesemente errato confrontare gli interessi convenuti per un conto corrente con il tasso soglia previsto per operazione di leasing, come è pure errato calcolare nel costo del credito le spese per imposte e tasse. In applicazione del medesimo principio di simmetria è errato calcolare nel costo del credito pattuito i tassi moratori che non sono presi in considerazione nel procedimento di rilevazione . QUARTA RIFLESSIONE Le considerazioni innanzi svolte non escludono che la questione dello sforamento del limite possa in concreto proporsi. Di regola nel contratto di mutuo le parti pattuiscono che su tutte le somme a qualsiasi titolo dovute dal cliente dal momento dellinadempimento decorrono gli interessi moratori. Ciò significa che la rata non riscossa verrà gravata dagli interessi moratori; in altri termini gli interessi moratori si applicano sulla rata non riscossa che comprende sia il capitale sia gli interessi; sicchè diviene inevitabile chiedersi se questapplicazione di interessi moratori su interessi corrispettivi sia legittima e se tale sommatoria consente di superare il tasso soglia. Al riguardo vanno distinte due questioni: il carattere usurario e lanatocismo. La rata non è unobbligazione, ma solo la modalità di adempimento di unobbligazione pecuniaria (art.1819 c.c.); essa risulta composta generalmente da una quota capitale e da una quota di interessi. Queste due quote sono separate nella fase genetica e durante il corso del rapporto, non lo sono nella fase patologica. Al momento dellinadempimento ci si trova al cospetto di una sola obbligazione che il debitore è tenuto soddisfare per capitale ed interessi. Questa unitarietà risulta confermata, ad esempio, dalle regole in tema di imputazione, che non lasciano spazio al debitore di scegliere tra luna o laltra obbligazione allatto del pagamento; ed è pure dimostrata dal modo di operare degli interessi moratori che si applicano allintero debito inadempiuto senza dare rilievo a capitale e interessi.In sostanza linadempimento della rata non può che trasformare le due obbligazioni, seppure originariamente distinguibili, in un unico debito (Cass.8.7.1986 n. 4451). In definitiva non si viene concretizzare alcuna sommatoria di interessi dato che gli interessi moratori operano sull unico debito esistente (Cass. 21.10.2005 n.20449; 31.1.2006 n. 2140; contra Cass.20.2.2003 n. 2593). Se lobbligazione è unitaria ed inscindibile al momento dellinadempimento il problema viene risolto in radice perché non si crea un fenomeno anatocistico. A supporto va ricordato che la delibera CICR del 9.2.200 ha previsto espressamente che nei rimborsi rateali dei finanziamenti non regolati in conto corrente (art.3), in caso di inadempimento allobbligo di pagamento delle rate scadute, sono dovuti, se contrattualmente previsti, gli interessi moratori sull importo complessivamente dovuto e quindi sulla parte di rata comprendete capitale ed interessi corrispettivi. La stessa delibera precisa che per gli interessi moratori non è consentita la capitalizzazione periodica. In diverse occasioni lArbitro Bancario Finanziario si è pronunciato sulla problematica ed ha confermato alcuni principi: a) In caso di inadempimento ci è una sola obbligazione; linadempimento trasforma le due obbligazioni della rata in un unico debito ( dec. 125/14 del Collegio di Napoli); b) L interesse moratorio è previsto come sostitutivo e non additivo dellinteresse corrispettivo ( dec. N. 21/14 del Collegio di Napoli). Ora qualcuno potrebbe dire che lArbitro Bancario Finanziario è di parte, ma a me sembra che in queste decisioni sono richiamati principi pacifici in giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione. In conclusione, le pronunce dei giudici di legittimità e di merito, come sopra richiamate, consigliano una ponderata riflessione prima di iniziare un giudizio sulla usurarietà del tasso di mora. Avv. Francesco Fiore ...
OPPOSIZIONE A DECRETO INGIUNTIVO: grava sul creditore lonere della prova a sostegno della propria pretesa
Il giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo si configura come giudizio ordinario di cognizione e si svolge secondo le norme del procedimento ordinario nel quale incombe, secondo i principi generali in tema di onere della prova, a chi fa valere un diritto in giudizio il compito di fornire gli elementi probatori a sostegno della propria pretesa. Nel giudizio di opposizione tornano, dunque, ad avere vigore quelle medesime norme sull'ammissibilità e rilevanza dei singoli mezzi di prova che sarebbero state applicabili se l'azione di condanna, anziché attraverso lo speciale procedimento monitorio, fosse stata esercitata subito in forma di citazione. Così ha stabilito il Tribunale di Bari, nella persona del Dott. Francesco Agnino, che con la sentenza del 27 marzo 2014, è intervenuto sul tema della distribuzione dellonere della prova nellambito del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo. Il caso di specie ha ad oggetto lingiunzione di pagamento di crediti per la prestazione di opera professionale, da parte di due ingegneri che assumevano di aver ricevuto e svolto un incarico professionale in maniera collegiale. Proponevano, pertanto, opposizione al decreto ingiuntivo le società debitrici sulla base della doglianza per cui spettasse al creditore fornire sufficiente prova della fonte del credito. Ebbene, il Tribunale di merito ha richiamato la giurisprudenza consolidata della Corte di Cassazione secondo cui il creditore che agisca in giudizio per l'inadempimento del debitore deve solo fornire la prova della fonte negoziale o legale del suo diritto, posto che incombe sul debitore convenuto l'onere di dimostrare l'avvenuto esatto adempimento dell'obbligazione. Pertanto, il Tribunale chiarisce che, nel caso di specie riguardante il credito di un professionista per lespletamento di un incarico - come, peraltro, statuito dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione (Corte Cass. Sent. 27 gennaio 2010, n. 1741), il creditore ingiungente e, dunque, attore in senso sostanziale, ha lonere di provare l'avvenuto conferimento del relativo incarico, in qualsiasi forma, da parte del cliente convenuto per il pagamento del compenso. Sul debitore opponente e convenuto in senso sostanziale, invece, incombe lonere di provare di aver esattamente adempiuto. La natura del giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo e la distribuzione dellonere della prova sono, probabilmente, due delle questioni più dibattute dalla dottrina e dalla giurisprudenza con riferimento al procedimento monitorio. Dalla corretta instaurazione del giudizio di opposizione e dalladempimento dellonere della prova dipende, Infatti, il destino del decreto ingiuntivo e, dunque, del titolo esecutivo essenziale ai fini del recupero del credito. La fase dellopposizione al decreto ingiuntivo, secondo la dottrina e la giurisprudenza dominanti, costituisce un giudizio ordinario di merito avente ad oggetto la pretesa vantata dal creditore ingiungente. Pertanto, il Giudice, nel corso di tale giudizio, non deve limitarsi a stabilire se l'ingiunzione sia stata emessa legittimamente, in relazione alle condizioni previste dalla legge per l'emanazione del provvedimento monitorio, ma deve accertare il fondamento della pretesa fatta valere col ricorso per ingiunzione. In altri termini, deve valutare l'an ed il quantum della pretesa creditoria. Ne consegue che la struttura del giudizio è tale per cui non vi è corrispondenza tra le parti intese in senso formale e in senso sostanziale. Infatti, formalmente, lopposizione è proposta dal debitore ingiunto che, dunque, è attore in senso formale, contro il creditore ingiungente, che è convenuto. Tuttavia, atteso che la pretesa, a seguito di sommario accertamento, risulta cristallizzata nel decreto ingiuntivo, il debitore opponente agisce al fine di contestarla e, dunque, è convenuto in senso sostanziale mentre il creditore ingiungente è attore. La distribuzione dellonere della prova tiene conto di tale particolare struttura dellopposizione. Alla luce di tali considerazioni, dunque, il Tribunale di Bari ha accolto lopposizione, revocando i decreti ingiuntivi in oggetto e compensando le spese di giudizio....
Proposizione di appello incidentale
Ove non sia rispettato il termine per il deposito in cancelleria della comparsa contenente l'appello incidentale, di cui all'articolo 343 c.p.c., l'appello è inammissibile ed a nulla rileverà che per l'appellante non sia ancora spirato il termine di cui agli articoli 325 o 327 c.p.c.. Peraltro, è proprio questa (oltre a quella corrispondente dell'articolo 371 c.p.c.) l'ipotesi cui si riferisce la decadenza di cui all'articolo 333 c.p.c., che non comporta tuttavia la invalidità di un appello comunque ...
Sospensione del procedimento con messa alla prova, i principali illeciti interessati dalla norma
Il prossimo sabato entra in vigore la legge 28 aprile 2014, n. 67, recante: Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili
Tar Lazio, anche i supplenti possono diventare presidi
Il Tar Lazio ha stabilito che anche i supplenti possono diventare presidi. Con la sentenza 5011/2014, il Tribunale amministrativo ha infatti accolto un ricorso dell'Anief e deciso che per partecipare al concorso per presidi può essere ritenuto valido anche il periodo di precariato perché equivalente a quello svolto dai colleghi di ruolo: due insegnanti oggi ancora precarie, che nel 2011 avevano presentato ricorso e superato tutte le prove preselettive e d'esame, si sono così viste sciogliere la ...
Comunicazioni e notifiche tramite PEC
Il processo ha conseguito di recente il traguardo, espressamente stabilito dal D. L. 18 ottobre 2012, n. 179, articolo 16, comma 4, conv. in L. 17 dicembre 2012, n. 221, che nei procedimenti civili le comunicazioni e le notificazioni a cura della cancelleria devono essere effettuate esclusivamente per via telematica all'indirizzo di posta elettronica certificata, con le decorrenze previste dal successivo comma 9, come modificato dalla L. n. 228 del 2012. La norma aggiunge al comma 6 che "Le notificazioni ...